mercoledì 7 gennaio 2009

L'intolleranza di Diana

Quasi iniziatico il corridoio che dal cortile interno del castello di Ferrara si deve percorrere, mentre il moderno, sacro e inavvicinabile “tempio di Diana” ci si svela lentamente davanti agli occhi.
Il materiale con cui è costruito ci assale col suo profumo: sapone di marsiglia.
Si entra, si inizia a camminare e si passa sotto al primo arco che conduce ad un altro tratto di corridoio; di fronte a noi si staglia una struttura di base quadrata alta un metro e ottanta costruita interamente di mattoni di sapone, la visione è quasi onirica, il bianco del materiale ci appare lentamente, illuminato di luce naturale riflette il candore, il fronte del tempio è leggermente in ombra ( il sacro non può essere visto, da occhi profani, interamente illuminato): iniziamo a percepire inconsciamente la purezza che si cela al suo interno.
Continuando a camminare verso il tempio, si inizia a sentire, oltre all’odore di sapone e di pulito che tutto il “sancta sanctorum” emana, l’ ululato della muta dei cani di Atteone all’inseguimento del loro padrone.
Procedendo il latrato dei cani da caccia è sempre più forte e ci accompagna fino al tempio, ci fa sprofondare nella consapevolezza che il Sacro è inafferrabile, che il Sacro deve rimanere invisibile agli occhi umani, pena la metamorfosi, come successe ad Atteone, mito narrato nelle “Metamorfosi” di Ovidio, trasformato in qualcosa che nulla più ha di umano, mutato in una bestia, in un cervo, inseguito e sbranato dai cani che egli stesso possedeva.
Stefano Guerrini ha rivisitato con la sua opera il mito di Diana ed Atteone, ha giocato sull’immagine delle ninfe vergini e della Dea della caccia, il loro bagnarsi nel lago, ha riportato la loro purezza fuori da loro stesse: l’acqua limpida è stata trasfigurata e metaforizzata nell’installazione che le nasconde e le cela in parte al visitatore, costretto a spiarle da un foro aperto nella struttura, ma a distanza.
La struttura è infatti protetta da catene e paletti stradali che ci vietano di andare oltre, che ci ammoniscono a non entrare appieno in contatto con la struttura “sacra” costruita con centinaia di saponette da bucato.
L’odore è forte, all’improvviso ci accorgiamo del buco, curiosiamo all’interno del tempio ed eccole, le ninfe e Diana in una immagine dipinta dal Cavalier d’ Arpino o meglio, si intravedono mentre compiono incuranti le loro abluzioni nelle acque cristalline.
Noi le stiamo spiando come fece Atteone e sappiamo che esse sono pure, lo intuiamo dall’odore.
Guardiamo incuriositi ma non possiamo essere rilassati, c’è qualcosa di terribile che ci aspetta, che ci ha condotto fino a lì, il sacro è inviolabile, i cani ci avevano avvertito, i paletti e le catene che ci separano ci avevano messo in guardia, la tranquillità riaffiora con irruenza odorando, ma la vista e l’udito ci creano una sensazione perturbante; Diana, l’Essere Sacro è pronta a punirci e a nulla varranno le nostre preghiere, a nulla il nostro allontanarci o avvicinarci al tempio.
La purezza stessa che ci viene presentata dall’artista tramite il sapone ma questo è il medesimo mezzo che ci offusca la visione. Solo un piccolo foro ricavato da una saponetta mancante, e nulla più, ci permette di sbirciare le ninfe.
Il Sacro si adira se l’occhio va oltre, quello che è inconcepibile e non visibile deve rimanere tale, pena terribile sarà arrecata a chi cerca invano di conoscere e vedere.
Tanto l’uomo antico dei miti greci che l’uomo moderno sono incapaci di partecipare alla sacralità e “L’intolleranza di Diana” ci ricorda quanto siamo vulnerabili rispetto al divino.
Stefano Guerrini ha rielaborato il mito coinvolgendo tre sensi del fruitore, vista udito e olfatto, forse avremmo voluto anche che il tatto fosse partecipe? Se solo non ci fossero state quelle catene bianche e rosse, avremmo potuto allungare una mano e toccare il tempio ma l’artista sa bene che l’uomo non può osare tanto.
Non dimentichiamo che Adamo ed Eva, per il gusto, ultimo senso, ci hanno fatto scacciare dal paradiso e ci hanno “donato” il peccato originale.

Diderot: il nipote di Rameau e il genio

Diderot, attraverso il suo personaggio Rameau, sembra quasi condannare l’uomo di genio; è vero che chi possiede quella dote emergerà e probabilmente porterà contributi alla società, ma nel futuro.
L’avere genio è dannoso per l’uomo, questa dote allontana l’essere umano dai suoi simili, lo rende disinteressato a tutto, tranne che a se stesso, per questo, seguendo Rameau nipote, molto meglio essere mediocri, piuttosto che spiccare tramite il genio.
Prendendo ad esempio la figura del Rameau zio, infatti, vengono portate alla luce tutte le caratteristiche estremamente negative dell’essere genio: disinteressato a far del bene, unico scopo posseduto al mondo, consiste nel produrre arte.
La condizione isolata del vero genio, morale o immorale che sia costui, è l’unico modo, comunque, per produrre opere che spicchino, nell’immediato, o in un futuro.
Questa posizione critica nei confronti degli uomini che possiedono genio, viene delineata anche negli scritti di Rousseau riguardanti la sua posizione verso l’arte, il quale però, per salvare forse la sua stessa reputazione di scrittore, trova una soluzione adeguata per poter risultare uomo di genio, e possedere anche un profondo altruismo; in lui compare l’idea che per essere un vero genio, questa sua condizione, che lo eleva dai suoi simili, deve legarsi in modo inscindibile alla virtù.
Si scaglia duramente contro coloro che fanno arte senza essere uomini moralmente retti, tanto da condannare il gusto frivolo e gli artisti per avere reso l’umanità peggiore.
Rousseau, quindi, prende di mira gli artisti che si svendono e vendono per essere apprezzati ed acclamati, che preferiscono essere applauditi piuttosto che essere virtuosi, ed è proprio in questo, nell’importanza che gioca la virtù, il vero nocciolo della condanna che è relativa, non ontologica, non assoluta, non è l’arte a corrompere gli uomini, non è l’arte il male, ciò che è sbagliato è il rapporto arte-società.
Nel suo “Discorso sulle scienze e sulle arti”(1750) si focalizza sul fatto che la nascita delle arti abbia portato l’umanità, una volta semplice, alla corruzione e alla disuguaglianza: ognuno cerca di apparire migliore, ognuno cerca di farsi notare.
Tra la virtù e il genio, senza ombra di dubbio Rousseau sceglie l’unica “cosa” che realmente ci appartiene, che unicamente è nostra, l’unica che coltiviamo e possiamo accrescere con le nostre forze, ovvero la virtù.
Il genio (o meglio, l’avere genio), essendo qualcosa che già abbiamo, poichè innato, non può realmente migliorarci, possiamo solo, noi, facendone buon uso, unirlo alla virtù, ed essere veri geni (necessario è ricordare che, nella condanna all’arte, c’è uno scarto sostanziale tra l’essere genio, e avere solo genio)
Voltaire verrà disprezzato da Rousseau, il quale in una lettera indirizzata all’amico di Ginevra Jacob Vernet, esprime tutto il suo disdegno per “quell’uomo di grandi talenti, e così vile per il loro uso”.
Per Rousseau, Voltaire ha commesso un errore impagabile, cercava di vivere con la propria arte, cosa che Rousseau non può accettare, convinto infatti che il genio non sia in vendita.
L’autore del contratto sociale sarebbe rimasto sbigottito nel sentire Rameau nipote affermare che se avesse potuto appropriarsi di una opera dello zio, la avrebbe usata per raggiungere il successo e divenire famoso.
Rousseau infatti rimarrà, per tutta la sua solitaria vita, convinto di ciò che aveva scritto nel “Discorso sulle scienze e sulle arti” che gli uomini amano più l’ apparenza che la virtù. In questo testo, infatti, egli prova a difendere la virtù “davanti agli uomini virtuosi” e afferma che la moralità è più cara “alle persone dabbene che non l’erudizione ai dotti”.
Che tutti vogliano essere applauditi è un concetto che Rousseau riprende spesso e, persino, nella “Prefazione al Narciso” (1753) scrive, “tutti vogliono essere uomini piacevoli, nessuno un uomo retto”.
Il personaggio Rameau non può comprendere il paradosso dell’essere genio, che risiede proprio nel dovere vivere per se stesso, libero dal “potere”, in quanto occorre dedicarsi alla propria arte senza cercare apprezzamenti.
Ma i veri Geni, quelli che ricercano il binomio inscindibile tra genio-virtù, sono rari, e sono gli unici che arrivano alla verità, in quanto non si preoccupano del successo, e non scrivono o producono arte, per piacere agli altri, ma solo per se stessi.
Questi Geni sublimi sono isolati dalla società, ma non per volontà, secondo Rousseau, è la società stessa che, in quanto non li apprezza e capisce, li isola, ammirando invece quegli artisti che producono seguendo il gusto capriccioso della folla.
Il vero genio è l’unico che arriva alla verità in quanto spinto da sentimenti nobili come il giusto e il bene: nella “Lettere a D’ Alembert sugli spettacoli”(scritta nel 1758 per dimostrare quanto potesse essere dannoso un teatro nella cittadina di Ginevra), Rousseau scrive che la giustizia e la verità sono i primi doveri dell’uomo.
Jean-Francois de Saint-Lambert, amante ufficiale di Sophie d’Houdetot, donna amata profondamente da Rousseau, scrive la voce “genio” per l’Encycpoledie focalizzandosi sulla importanza che gioca l’immaginazione e sull’ “animo fervido” che possiede l’artista.
L’uomo che ha questa dote non può ribellarsi alla sua natura, ed è costretto a “sentire” maggiormente, rispetto agli altri uomini.
Egli si impersonifica con ciò che crea e, grazie a questo immedesimarsi. riesce a compiere opere sublimi.
L’uomo di genio si ritrova sommerso dalle idee, difficilmente riesce a seguire delle tranquille riflessioni e questo tomento di immagini lo porta a violare la natura.
Il genio sembra poter cambiare la natura delle cose, non si preoccupa del passato o del presente, ma si proietta sull’avvenire.
Anche Jean-Francois de Saint-Lambert è consapevole del fatto che il genio non viene capito dai suoi contemporanei .
Rousseau alla voce “compositore” del suo “Dizionario di musica” (1768), afferma che il genio è “quella fiamma interiore che pervade e tormenta il compositore suo malgrado” e alla voce “Genio” afferma: “Non cercare, giovane artista, cosa sia il genio. Se ne sei dotato lo avverti in te stesso”. . L’immagine del genio come qualcosa che divampa dentro l’artista, è diversissima rispetto a quella di Du Bos o di Batteaux, dove il genio è una facoltà mitigata dalla ragione, non è nessun trasporto violento poiché questo sarebbe dannoso all’opera.
La razionalità insieme al gusto devono mettere in movimento l’artista, che naturalmente è tale perché possiede quella dote naturale in più che gli altri uomini non posseggono.
Nel 1747 Batteaux scrive “Le belle arti ricondotte ad un unico principio” nel quale sottolinea che le arti sono unite dal principio di imitazione, ma non della realtà qualsiasi, ma della bella natura, che solo il genio può cogliere e riproporre. Non è semplice riproduzione di ciò che l’occhio vede, ma bisogna indagare ciò che è bello, grazie al sostegno-guida del buon gusto.
Il genio quindi, per questi due autori, sopra richiamati, è un dono, un regalo della natura derivante anche da cause fisiche, geografiche, climatiche e storico-sociali, non essendoci ancora spazio in questa visione del genio ottocentesco.

mercoledì 26 novembre 2008

la condanna all'arte

Tutto avviene in modo misterioso, l’autore del “Contratto sociale” e della “Nuova Eloisa”, ancora non scritti nel 1750, data importantissima per Jean-Jacques, sta camminando: qualcosa accade nel suo cuore, ha inizio la rottura completa con i philosoph, con gli autori dell’enciclopedia, avviene quello che i critici chiamano l’illuminazione di Vincennes, Jean-Jacques inizia a condannare l’arte, si distacca da Parigi.

Questa conversione prende avvio dalla lettura del bando di concorso dell’Accademia di Digione: “Se il rinascimento delle scienze e delle arti ha contribuito a purificare i costumi”, premio che, paradossalmente il cittadino di Ginevra vince.

Egli inizia a riflettere e capisce di essere fuori dal suo tempo, cosa forse non troppo strana, i suoi attacchi “moralisti” piacciono ai suoi contemporanei e lo portano ad avere un enorme successo che, però, il nostro autore non apprezza fino in fondo.

Presto infatti, nel 1756, arriva alla definitiva chiusura e si ritira in un cottage a Monntmorency, dove avrà un periodo estremamente produttivo: di quegli anni infatti sono i già citati “Contratto sociale”, “Giulia o la nuova Eloisa” e l’”Emilio”.

Bene è ricordarsi, però, che questa condanna è relativa, non ontologica, non assoluta, non è l’arte a corrompere gli uomini, non è l’arte il male, ciò che è sbagliato è il rapporto arte-società.

Rousseau si scaglia contro gli artisti che si svendono e vendono per essere apprezzati ed acclamati, che preferiscono essere applauditi piuttosto che essere virtuosi, ed è proprio in questo, nell’importanza che gioca la virtù, il vero nocciolo della condanna.

Tra la virtù e il genio, senza ombra di dubbio il nostro autore sceglie l’unica “cosa” che realmente ci appartiene, che unicamente è nostra, l’unica che coltiviamo e possiamo accrescere con le nostre forze, ovvero la virtù.

Il genio (o meglio, l’avere genio), essendo qualcosa che già abbiamo, essendo innato, non può realmente migliorarci, possiamo solo, noi, facendone buon uso, unirlo alla virtù, ed essere veri geni (necessario è ricordare che, nella condanna all’arte, c’è uno scarto sostanziale tra l’essere genio, e avere solo genio).

Rousseau condanna chi ha genio ma non ne fa buon uso, chi è interessato solo ad essere conosciuto ed umilia se stesso, chi vuole essere un uomo piacevole e non un uomo retto.

Nel suo “Discorso sulle scienze e sulle arti” (saggio che si può trovare in una magnifica raccolta a cura del professore Ferdinando Bollino “Jean-Jacques Rousseau. Scritti sulle arti” della casa editrice Clueb) si focalizza sul fatto che la nascita delle arti abbia portato l’umanità, una volta semplice, alla corruzione e alla disuguaglianza: ognuno cerca di apparire migliore, ognuno cerca di farsi notare.

Ma come conciliare allora questa sua ferrea critica, alla sua produzione di romanzi e saggi?

Il nostro autore si difende da questa accusa nella prefazione al Narciso, sostenendo che lui scrive non per fama, e se mai fosse dimentico della sua virtù, egli stesso getterebbe nel fuoco tutti i suoi scritti.

E, come scrisse Jean-Jacques, il vero genio non è in vendita, esso è disinteressato.

martedì 7 ottobre 2008

L'intolleranza di Diana

Quasi iniziatico il corridoio che dal cortile interno del castello di Ferrara si deve percorrere, mentre il moderno, sacro e inavvicinabile “tempio di Diana” ci si svela lentamente davanti agli occhi.
Il materiale con cui è costruito ci assale col suo profumo: sapone di marsiglia.
Si entra, si inizia a camminare e si passa sotto al primo arco che conduce ad un altro tratto di corridoio; di fronte a noi si staglia una struttura di base quadrata alta un metro e ottanta costruita interamente di mattoni di sapone, la visione è quasi onirica, il bianco del materiale ci appare lentamente, illuminato di luce naturale riflette il candore, il fronte del tempio è leggermente in ombra ( il sacro non può essere visto, da occhi profani, interamente illuminato): iniziamo a percepire inconsciamente la purezza che si cela al suo interno.
Continuando a camminare verso il tempio, si inizia a sentire, oltre all’odore di sapone e di pulito che tutto il “sancta sanctorum” emana, l’ ululato della muta dei cani di Atteone all’inseguimento del loro padrone.
Procedendo il latrato dei cani da caccia è sempre più forte e ci accompagna fino al tempio, ci fa sprofondare nella consapevolezza che il Sacro è inafferrabile, che il Sacro deve rimanere invisibile agli occhi umani, pena la metamorfosi, come successe ad Atteone, mito narrato nelle “Metamorfosi” di Ovidio, trasformato in qualcosa che nulla più ha di umano, mutato in una bestia, in un cervo, inseguito e sbranato dai cani che egli stesso possedeva.
Stefano Guerrini ha rivisitato con la sua opera il mito di Diana ed Atteone, ha giocato sull’immagine delle ninfe vergini e della Dea della caccia, il loro bagnarsi nel lago, ha riportato la loro purezza fuori da loro stesse: l’acqua limpida è stata trasfigurata e metaforizzata nell’installazione che le nasconde e le cela in parte al visitatore, costretto a spiarle da un foro aperto nella struttura, ma a distanza.
La struttura è infatti protetta da catene e paletti stradali che ci vietano di andare oltre, che ci ammoniscono a non entrare appieno in contatto con la struttura “sacra” costruita con centinaia di saponette da bucato.
L’odore è forte, all’improvviso ci accorgiamo del buco, curiosiamo all’interno del tempio ed eccole, le ninfe e Diana in una immagine dipinta dal Cavalier d’ Arpino o meglio, si intravedono mentre compiono incuranti le loro abluzioni nelle acque cristalline.
Noi le stiamo spiando come fece Atteone e sappiamo che esse sono pure, lo intuiamo dall’odore.
Guardiamo incuriositi ma non possiamo essere rilassati, c’è qualcosa di terribile che ci aspetta, che ci ha condotto fino a lì, il sacro è inviolabile, i cani ci avevano avvertito, i paletti e le catene che ci separano ci avevano messo in guardia, la tranquillità riaffiora con irruenza odorando, ma la vista e l’udito ci creano una sensazione perturbante; Diana, l’Essere Sacro è pronta a punirci e a nulla varranno le nostre preghiere, a nulla il nostro allontanarci o avvicinarci al tempio.
La purezza stessa che ci viene presentata dall’artista tramite il sapone ma questo è il medesimo mezzo che ci offusca la visione. Solo un piccolo foro ricavato da una saponetta mancante, e nulla più, ci permette di sbirciare le ninfe.
Il Sacro si adira se l’occhio va oltre, quello che è inconcepibile e non visibile deve rimanere tale, pena terribile sarà arrecata a chi cerca invano di conoscere e vedere.
Tanto l’uomo antico dei miti greci che l’uomo moderno sono incapaci di partecipare alla sacralità e “L’intolleranza di Diana” ci ricorda quanto siamo vulnerabili rispetto al divino.
Stefano Guerrini ha rielaborato il mito coinvolgendo tre sensi del fruitore, vista udito e olfatto, forse avremmo voluto anche che il tatto fosse partecipe? Se solo non ci fossero state quelle catene bianche e rosse, avremmo potuto allungare una mano e toccare il tempio ma l’artista sa bene che l’uomo non può osare tanto.
Non dimentichiamo che Adamo ed Eva, per il gusto, ultimo senso, ci hanno fatto scacciare dal paradiso e ci hanno “donato” il peccato originale.


venerdì 11 luglio 2008

Du Bos e la funzione dell'arte

Nelle sue “Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura” (1719) Du Bos fa coincidere il piano estetico delle arti, con quello psicologico e sociologico, per mettere in evidenza quanto l’arte non sia e non possa essere autonoma dall’uomo, ma è sempre in relazione con lui.

Non indagandone il fattore ontologico, Du Bos, si chiede quale sia la funzione delle arti: l’arte è una cura per strapparci dall’infelicità procurandoci un piacere puro e privo, quindi, di reali e “pericolose” passioni, che potrebbero mettere l’animo umano in crisi.

Il punto di partenza è che l’uomo necessita di distrazioni per poter avere la mente perennemente occupata, per non ricadere nella noia, condizione estremamente pericolosa per gli individui.

Due strade possono essere percorse, quello della riflessione e quello del sentire; la prima non è accessibile a tutti, non è facile avere la capacità di pensare su se stessi, ma sicuramente la distrazione più piacevole e sicura è appunto il sentire, facile per qualsiasi uomo.

Bisogna sentire, ma senza il rischio di cadere in sgradevoli e durevoli passioni difficili da governare, ed ecco che l’arte ci può fare provare passioni, ma mantenendoci sempre vigili e permettendo, in ogni istante, alla nostra volontà e ragione di governare queste passioni pure che ci trasmette l’arte.

L’arte diviene essenziale per la vita dell’uomo. La novità ulteriore di Du Bos è stata, in aggiunta, quella di allargare la nozione di pubblico, essendo tutti in grado di “sentire” e provare piacere; il sentire e il gusto appartengono a tutta l’umanità, tutti gli uomini sono uguali tramite le “ragioni del cuore”, non solo una determinata elite può fruire dell’arte.

Ma cosa l’artista, il genio, deve mostrare al pubblico, per potere effettivamente svolgere il suo compito di movere et delectare gli animi?

Il genio deve raffigurare le sofferenze umane capaci di commuoverci, rifacendosi all’immagine del “de rerum nature” di Lucrezio, è infatti piacevole starsene sulla spiaggia al sicuro, mentre si vede un naufragio in lontananza.

Ma cosa è il genio? È un dono, una dote naturale derivante anche da cause fisiche, geografiche, climatiche e storico-sociali, non è ancora un creatore come sarà nel 1800, ma è uno scopritore, lui e solo lui sa cosa poter “dipingere” per poter farci provare emozioni.

giovedì 5 giugno 2008

Platone e le Dottrine non scritte-Giovanni Reale

Giovanni Reale è uno dei massimi studiosi della filosofia antica; egli ritiene che in essa, l’uomo occidentale, possa ritrovare e riconoscere, e quindi recuperare, le proprie radici di pensiero.

Egli sostiene che, per liberarci da tutti i mali che ha prodotto il nichilismo nell’animo dell’uomo, sia necessario ritornare alla sapienza degli antichi.

Egli recupera, quindi, grandi classici quali Socrate, Aristotele, Plotino e S Agostino ma, in particolare, il suo profondo amore, e punto di incontro tra la metafisica della classicità e quella della modernità, non può che essere Platone.

Nel dialogo platonico, Il Fedone, in cui Socrate è costretto a bere la cicuta, Platone affronta il tema dell’anima.

Fondamentale il finale in cui il filosofo della maieutica, avendo già ingerito il veleno mortale, esorta i suoi discepoli, ad offrire un gallo a esculapio, in segno di ringraziamento per la liberazione dalla vita; l’anima è immortale ecco il punto di incontro e il continuum, tra la metafisica greca e quella occidentale moderna, che passa e si rafforza dalla filosofia medievale, la scolastica.

Reale immette anche in Italia un nuovo studio di Platone, mettendone in crisi l’idea romantica del filosofo, che risale a Schleiermacher, rivalutando le dottrine non scritte, di cui parlano i discepoli di Plaotne, partendo da una fonte sicuramente attendibile quale quella di Aristotele.

Ma è infondo Platone stesso che afferma che la sua dottrina va cercata altrove, ma forse prova ancora più tangibile è che sono gli scritti stessi del filosofo a “richiedere” una dottrina ulteriore, probabilmente esoterica e non accessibile a tutti,: possibile che il corpo degli scritti platonici non presenti una unità sistematica?

Probabilmente, allora, a ragione, il vero Platone andrebbe cercato nelle “dottrine non scritte”(o forse sarebbe più corretto dire che andrebbero trovate queste dottrine all’interno di altre opere di seguaci di Platone).

Reale stsso, che sostiene appunto la presenza nella filosofia di Platone di una parte “esoterica” non parla però di iniziazione, ma di studi, verità e dottrine che venivano offerti solo ai discepoli dell’ Accademia.

Chiaro è, quindi che non si parla di alcuna “setta Platonica”, non esistono “culti misterici Platonici”, sebbene la cosa potrebbe essere moto interessante e suggestiva.

Cè stata, e ci sarà probabilmente, una disputa tra i sostenitori dell’esoterismo di Platone e gli anti-ersoteristi, i primi sostenitori di effettive dottrine “segrete” e i secondi che cercano il filosofo Platone all’interno, e solo all’interno, di quello che ci è giunto fino ad oggi.

Ma infondo, se si legge la lettera VII del Fedro, Platone stesso dichiara che lo scritto non può mai rappresentare la cosa più seria per il filosofo, se è veramente tale, si asterrà da scrivere le cose di vero valore.

venerdì 30 maggio 2008

Bultmann e il Nuovo Testamento

La libertà dell’uomo, dalla Riforma fino ad oggi, prende il sopravvento; egli si libera delle obsolete istituzioni, delle antiche credenze e delle vecchie istituzioni.
Il cambiamento effettivo avviene, come ci si può immaginare, tramite i progressi e le scoperte scientifiche del XVII secolo.
In modo quasi magico la rivoluzione copernicana cambia tutta la concezione del mondo e della natura.
L’uomo diventa soggetto e oggetto della scienza, diviene essere di natura, gradualmente tutte le certezze confortevoli dell’essere fatto ad immagine e somiglianza di Dio vengono cancellate dal progresso delle ricerche, il Vangelo e la parola di Dio perdono di credibilità, l’uomo moderno si trova debole ed indifeso rispetto al destino. Egli vorrebbe credere, ma non ne è più in grado, a causa delle forti contraddizioni tra fede e scienza.
Come poter credere, o meglio, come poter accettare le dottrine del Nuovo Testamento è l’argomento di “Nuovo Testamento e mitologia”, uno dei più famosi libri (edito dalla casa editrice Queriniana, nella collana giornali di teologia, ultima edizione uscita nel 2005) di uno dei maggiori e importanti teologi del nostro tempo morto nel 1976, Rudolf Bultmann.
Il Vangelo, secondo la sua teoria, per poter essere accettato e compreso da noi moderni, deve essere demitizzato: una concezione mitica del mondo era possibile quando non vi erano conoscenze scientifiche certe.
La concezione del mondo muta, e anche il modo di interpretare il nuovo Testamento deve essere differente rispetto a quando è stato scritto.
Una cieca accettazione del Nuovo testamento sarebbe un arbitrio personale, una scelta di fede.
Difficilmente l’uomo moderno può accettare la tripartizione del cosmo, ancora più difficilmente può accettare le guarigioni miracolose; compito del teologo quindi, deve essere proprio quello di demitizzare il messaggio cristiano per poterlo rendere attuale, accettabile da tutti, senza la necessità di una cieca fede che potrebbe andare contro le scoperte moderne.
Il Kerygma, sebbene impregnato di visioni mitiche, non può essere cancellato, ma necessita di una revisione, deve essere interpretato criticamente.
Per Bultmann il messaggio che deve scaturire dal Vangelo è una apertura al futuro priva di paure; bisogna rinascere escatologicamente, essere una nuova creatura.
L’escatologia neotestamentaria inizia dal momento che, per il credente, il tempo della salvezza è incominciato: la vita futura è già presente.
Bultmann prende come riferimento il vangelo di Giovanni, dove Gesù è venuto al mondo e ha chiamato alla fede: “il giudizio è questo: la luce è già venuta nel mondo” (Giov. 3,19)
La fede diviene amore, un bisogno naturale dell’uomo, nulla di misterioso vi è in essa ed è per questo che va demitizzata, per riportarla al suo vero messaggio originario.
La fede cerca di mostrare all’uomo cosa esso sia esattamente come fa la filosofia, con la differenza, sostiene il teologo tedesco, che nella fede la naturalezza dell’uomo deve essere guidata dall’intervento di Dio. Nuovo Testamento e filosofia convergono sul fatto che l’uomo possa diventare cosa egli sia già, basta prendere coraggio delle proprie azioni e rendersene consapevoli.
Cristo serve a riscattare l’uomo che si è voluto rendere autonomo rispetto a Dio, e l’uomo, grazie al Suo intervento ritorna ad essere libero; libero di decidere se scegliere la fede, donandosi agli altri o rimanere semplice oggetto e soggetto di natura.
Gesù è un reale personaggio storico, scrive Bultmann, e la sua parola è un fenomeno socio-culturale: così la dottrina cristiana può essere accettata, poiché non viene più avvolta nel mistero sebbene rimanga un fatto di fede.
E’ proprio l’indimostrabilità specifica della fede che mette l’annuncio Cristiano al sicuro, e riprendendo le parole di Bultmann: “in questo modo viene affermato il paradosso della presenza dell’al di là divino nella storia: il verbo si è fatto carne”.
La dottrina cristiana fa in modo che all’uomo sia sempre offerto il momento della libertà. Ogni istante diventa escatologico, è una rinascita che può liberare l’uomo dal suo destino storico e renderlo libero.
A chi si lacera e non trova alcun senso nella storia e nella vita a causa della sfiducia nella modernità, Bultmann risponde di non guardare alla storia universale, ma cercare sicurezza nella propria storia personale. In ogni istante sonnecchia la possibilità di essere un istante escatologico, a noi lo svegliarlo.