mercoledì 26 novembre 2008

la condanna all'arte

Tutto avviene in modo misterioso, l’autore del “Contratto sociale” e della “Nuova Eloisa”, ancora non scritti nel 1750, data importantissima per Jean-Jacques, sta camminando: qualcosa accade nel suo cuore, ha inizio la rottura completa con i philosoph, con gli autori dell’enciclopedia, avviene quello che i critici chiamano l’illuminazione di Vincennes, Jean-Jacques inizia a condannare l’arte, si distacca da Parigi.

Questa conversione prende avvio dalla lettura del bando di concorso dell’Accademia di Digione: “Se il rinascimento delle scienze e delle arti ha contribuito a purificare i costumi”, premio che, paradossalmente il cittadino di Ginevra vince.

Egli inizia a riflettere e capisce di essere fuori dal suo tempo, cosa forse non troppo strana, i suoi attacchi “moralisti” piacciono ai suoi contemporanei e lo portano ad avere un enorme successo che, però, il nostro autore non apprezza fino in fondo.

Presto infatti, nel 1756, arriva alla definitiva chiusura e si ritira in un cottage a Monntmorency, dove avrà un periodo estremamente produttivo: di quegli anni infatti sono i già citati “Contratto sociale”, “Giulia o la nuova Eloisa” e l’”Emilio”.

Bene è ricordarsi, però, che questa condanna è relativa, non ontologica, non assoluta, non è l’arte a corrompere gli uomini, non è l’arte il male, ciò che è sbagliato è il rapporto arte-società.

Rousseau si scaglia contro gli artisti che si svendono e vendono per essere apprezzati ed acclamati, che preferiscono essere applauditi piuttosto che essere virtuosi, ed è proprio in questo, nell’importanza che gioca la virtù, il vero nocciolo della condanna.

Tra la virtù e il genio, senza ombra di dubbio il nostro autore sceglie l’unica “cosa” che realmente ci appartiene, che unicamente è nostra, l’unica che coltiviamo e possiamo accrescere con le nostre forze, ovvero la virtù.

Il genio (o meglio, l’avere genio), essendo qualcosa che già abbiamo, essendo innato, non può realmente migliorarci, possiamo solo, noi, facendone buon uso, unirlo alla virtù, ed essere veri geni (necessario è ricordare che, nella condanna all’arte, c’è uno scarto sostanziale tra l’essere genio, e avere solo genio).

Rousseau condanna chi ha genio ma non ne fa buon uso, chi è interessato solo ad essere conosciuto ed umilia se stesso, chi vuole essere un uomo piacevole e non un uomo retto.

Nel suo “Discorso sulle scienze e sulle arti” (saggio che si può trovare in una magnifica raccolta a cura del professore Ferdinando Bollino “Jean-Jacques Rousseau. Scritti sulle arti” della casa editrice Clueb) si focalizza sul fatto che la nascita delle arti abbia portato l’umanità, una volta semplice, alla corruzione e alla disuguaglianza: ognuno cerca di apparire migliore, ognuno cerca di farsi notare.

Ma come conciliare allora questa sua ferrea critica, alla sua produzione di romanzi e saggi?

Il nostro autore si difende da questa accusa nella prefazione al Narciso, sostenendo che lui scrive non per fama, e se mai fosse dimentico della sua virtù, egli stesso getterebbe nel fuoco tutti i suoi scritti.

E, come scrisse Jean-Jacques, il vero genio non è in vendita, esso è disinteressato.

martedì 7 ottobre 2008

L'intolleranza di Diana

Quasi iniziatico il corridoio che dal cortile interno del castello di Ferrara si deve percorrere, mentre il moderno, sacro e inavvicinabile “tempio di Diana” ci si svela lentamente davanti agli occhi.
Il materiale con cui è costruito ci assale col suo profumo: sapone di marsiglia.
Si entra, si inizia a camminare e si passa sotto al primo arco che conduce ad un altro tratto di corridoio; di fronte a noi si staglia una struttura di base quadrata alta un metro e ottanta costruita interamente di mattoni di sapone, la visione è quasi onirica, il bianco del materiale ci appare lentamente, illuminato di luce naturale riflette il candore, il fronte del tempio è leggermente in ombra ( il sacro non può essere visto, da occhi profani, interamente illuminato): iniziamo a percepire inconsciamente la purezza che si cela al suo interno.
Continuando a camminare verso il tempio, si inizia a sentire, oltre all’odore di sapone e di pulito che tutto il “sancta sanctorum” emana, l’ ululato della muta dei cani di Atteone all’inseguimento del loro padrone.
Procedendo il latrato dei cani da caccia è sempre più forte e ci accompagna fino al tempio, ci fa sprofondare nella consapevolezza che il Sacro è inafferrabile, che il Sacro deve rimanere invisibile agli occhi umani, pena la metamorfosi, come successe ad Atteone, mito narrato nelle “Metamorfosi” di Ovidio, trasformato in qualcosa che nulla più ha di umano, mutato in una bestia, in un cervo, inseguito e sbranato dai cani che egli stesso possedeva.
Stefano Guerrini ha rivisitato con la sua opera il mito di Diana ed Atteone, ha giocato sull’immagine delle ninfe vergini e della Dea della caccia, il loro bagnarsi nel lago, ha riportato la loro purezza fuori da loro stesse: l’acqua limpida è stata trasfigurata e metaforizzata nell’installazione che le nasconde e le cela in parte al visitatore, costretto a spiarle da un foro aperto nella struttura, ma a distanza.
La struttura è infatti protetta da catene e paletti stradali che ci vietano di andare oltre, che ci ammoniscono a non entrare appieno in contatto con la struttura “sacra” costruita con centinaia di saponette da bucato.
L’odore è forte, all’improvviso ci accorgiamo del buco, curiosiamo all’interno del tempio ed eccole, le ninfe e Diana in una immagine dipinta dal Cavalier d’ Arpino o meglio, si intravedono mentre compiono incuranti le loro abluzioni nelle acque cristalline.
Noi le stiamo spiando come fece Atteone e sappiamo che esse sono pure, lo intuiamo dall’odore.
Guardiamo incuriositi ma non possiamo essere rilassati, c’è qualcosa di terribile che ci aspetta, che ci ha condotto fino a lì, il sacro è inviolabile, i cani ci avevano avvertito, i paletti e le catene che ci separano ci avevano messo in guardia, la tranquillità riaffiora con irruenza odorando, ma la vista e l’udito ci creano una sensazione perturbante; Diana, l’Essere Sacro è pronta a punirci e a nulla varranno le nostre preghiere, a nulla il nostro allontanarci o avvicinarci al tempio.
La purezza stessa che ci viene presentata dall’artista tramite il sapone ma questo è il medesimo mezzo che ci offusca la visione. Solo un piccolo foro ricavato da una saponetta mancante, e nulla più, ci permette di sbirciare le ninfe.
Il Sacro si adira se l’occhio va oltre, quello che è inconcepibile e non visibile deve rimanere tale, pena terribile sarà arrecata a chi cerca invano di conoscere e vedere.
Tanto l’uomo antico dei miti greci che l’uomo moderno sono incapaci di partecipare alla sacralità e “L’intolleranza di Diana” ci ricorda quanto siamo vulnerabili rispetto al divino.
Stefano Guerrini ha rielaborato il mito coinvolgendo tre sensi del fruitore, vista udito e olfatto, forse avremmo voluto anche che il tatto fosse partecipe? Se solo non ci fossero state quelle catene bianche e rosse, avremmo potuto allungare una mano e toccare il tempio ma l’artista sa bene che l’uomo non può osare tanto.
Non dimentichiamo che Adamo ed Eva, per il gusto, ultimo senso, ci hanno fatto scacciare dal paradiso e ci hanno “donato” il peccato originale.


venerdì 11 luglio 2008

Du Bos e la funzione dell'arte

Nelle sue “Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura” (1719) Du Bos fa coincidere il piano estetico delle arti, con quello psicologico e sociologico, per mettere in evidenza quanto l’arte non sia e non possa essere autonoma dall’uomo, ma è sempre in relazione con lui.

Non indagandone il fattore ontologico, Du Bos, si chiede quale sia la funzione delle arti: l’arte è una cura per strapparci dall’infelicità procurandoci un piacere puro e privo, quindi, di reali e “pericolose” passioni, che potrebbero mettere l’animo umano in crisi.

Il punto di partenza è che l’uomo necessita di distrazioni per poter avere la mente perennemente occupata, per non ricadere nella noia, condizione estremamente pericolosa per gli individui.

Due strade possono essere percorse, quello della riflessione e quello del sentire; la prima non è accessibile a tutti, non è facile avere la capacità di pensare su se stessi, ma sicuramente la distrazione più piacevole e sicura è appunto il sentire, facile per qualsiasi uomo.

Bisogna sentire, ma senza il rischio di cadere in sgradevoli e durevoli passioni difficili da governare, ed ecco che l’arte ci può fare provare passioni, ma mantenendoci sempre vigili e permettendo, in ogni istante, alla nostra volontà e ragione di governare queste passioni pure che ci trasmette l’arte.

L’arte diviene essenziale per la vita dell’uomo. La novità ulteriore di Du Bos è stata, in aggiunta, quella di allargare la nozione di pubblico, essendo tutti in grado di “sentire” e provare piacere; il sentire e il gusto appartengono a tutta l’umanità, tutti gli uomini sono uguali tramite le “ragioni del cuore”, non solo una determinata elite può fruire dell’arte.

Ma cosa l’artista, il genio, deve mostrare al pubblico, per potere effettivamente svolgere il suo compito di movere et delectare gli animi?

Il genio deve raffigurare le sofferenze umane capaci di commuoverci, rifacendosi all’immagine del “de rerum nature” di Lucrezio, è infatti piacevole starsene sulla spiaggia al sicuro, mentre si vede un naufragio in lontananza.

Ma cosa è il genio? È un dono, una dote naturale derivante anche da cause fisiche, geografiche, climatiche e storico-sociali, non è ancora un creatore come sarà nel 1800, ma è uno scopritore, lui e solo lui sa cosa poter “dipingere” per poter farci provare emozioni.

giovedì 5 giugno 2008

Platone e le Dottrine non scritte-Giovanni Reale

Giovanni Reale è uno dei massimi studiosi della filosofia antica; egli ritiene che in essa, l’uomo occidentale, possa ritrovare e riconoscere, e quindi recuperare, le proprie radici di pensiero.

Egli sostiene che, per liberarci da tutti i mali che ha prodotto il nichilismo nell’animo dell’uomo, sia necessario ritornare alla sapienza degli antichi.

Egli recupera, quindi, grandi classici quali Socrate, Aristotele, Plotino e S Agostino ma, in particolare, il suo profondo amore, e punto di incontro tra la metafisica della classicità e quella della modernità, non può che essere Platone.

Nel dialogo platonico, Il Fedone, in cui Socrate è costretto a bere la cicuta, Platone affronta il tema dell’anima.

Fondamentale il finale in cui il filosofo della maieutica, avendo già ingerito il veleno mortale, esorta i suoi discepoli, ad offrire un gallo a esculapio, in segno di ringraziamento per la liberazione dalla vita; l’anima è immortale ecco il punto di incontro e il continuum, tra la metafisica greca e quella occidentale moderna, che passa e si rafforza dalla filosofia medievale, la scolastica.

Reale immette anche in Italia un nuovo studio di Platone, mettendone in crisi l’idea romantica del filosofo, che risale a Schleiermacher, rivalutando le dottrine non scritte, di cui parlano i discepoli di Plaotne, partendo da una fonte sicuramente attendibile quale quella di Aristotele.

Ma è infondo Platone stesso che afferma che la sua dottrina va cercata altrove, ma forse prova ancora più tangibile è che sono gli scritti stessi del filosofo a “richiedere” una dottrina ulteriore, probabilmente esoterica e non accessibile a tutti,: possibile che il corpo degli scritti platonici non presenti una unità sistematica?

Probabilmente, allora, a ragione, il vero Platone andrebbe cercato nelle “dottrine non scritte”(o forse sarebbe più corretto dire che andrebbero trovate queste dottrine all’interno di altre opere di seguaci di Platone).

Reale stsso, che sostiene appunto la presenza nella filosofia di Platone di una parte “esoterica” non parla però di iniziazione, ma di studi, verità e dottrine che venivano offerti solo ai discepoli dell’ Accademia.

Chiaro è, quindi che non si parla di alcuna “setta Platonica”, non esistono “culti misterici Platonici”, sebbene la cosa potrebbe essere moto interessante e suggestiva.

Cè stata, e ci sarà probabilmente, una disputa tra i sostenitori dell’esoterismo di Platone e gli anti-ersoteristi, i primi sostenitori di effettive dottrine “segrete” e i secondi che cercano il filosofo Platone all’interno, e solo all’interno, di quello che ci è giunto fino ad oggi.

Ma infondo, se si legge la lettera VII del Fedro, Platone stesso dichiara che lo scritto non può mai rappresentare la cosa più seria per il filosofo, se è veramente tale, si asterrà da scrivere le cose di vero valore.

venerdì 30 maggio 2008

Bultmann e il Nuovo Testamento

La libertà dell’uomo, dalla Riforma fino ad oggi, prende il sopravvento; egli si libera delle obsolete istituzioni, delle antiche credenze e delle vecchie istituzioni.
Il cambiamento effettivo avviene, come ci si può immaginare, tramite i progressi e le scoperte scientifiche del XVII secolo.
In modo quasi magico la rivoluzione copernicana cambia tutta la concezione del mondo e della natura.
L’uomo diventa soggetto e oggetto della scienza, diviene essere di natura, gradualmente tutte le certezze confortevoli dell’essere fatto ad immagine e somiglianza di Dio vengono cancellate dal progresso delle ricerche, il Vangelo e la parola di Dio perdono di credibilità, l’uomo moderno si trova debole ed indifeso rispetto al destino. Egli vorrebbe credere, ma non ne è più in grado, a causa delle forti contraddizioni tra fede e scienza.
Come poter credere, o meglio, come poter accettare le dottrine del Nuovo Testamento è l’argomento di “Nuovo Testamento e mitologia”, uno dei più famosi libri (edito dalla casa editrice Queriniana, nella collana giornali di teologia, ultima edizione uscita nel 2005) di uno dei maggiori e importanti teologi del nostro tempo morto nel 1976, Rudolf Bultmann.
Il Vangelo, secondo la sua teoria, per poter essere accettato e compreso da noi moderni, deve essere demitizzato: una concezione mitica del mondo era possibile quando non vi erano conoscenze scientifiche certe.
La concezione del mondo muta, e anche il modo di interpretare il nuovo Testamento deve essere differente rispetto a quando è stato scritto.
Una cieca accettazione del Nuovo testamento sarebbe un arbitrio personale, una scelta di fede.
Difficilmente l’uomo moderno può accettare la tripartizione del cosmo, ancora più difficilmente può accettare le guarigioni miracolose; compito del teologo quindi, deve essere proprio quello di demitizzare il messaggio cristiano per poterlo rendere attuale, accettabile da tutti, senza la necessità di una cieca fede che potrebbe andare contro le scoperte moderne.
Il Kerygma, sebbene impregnato di visioni mitiche, non può essere cancellato, ma necessita di una revisione, deve essere interpretato criticamente.
Per Bultmann il messaggio che deve scaturire dal Vangelo è una apertura al futuro priva di paure; bisogna rinascere escatologicamente, essere una nuova creatura.
L’escatologia neotestamentaria inizia dal momento che, per il credente, il tempo della salvezza è incominciato: la vita futura è già presente.
Bultmann prende come riferimento il vangelo di Giovanni, dove Gesù è venuto al mondo e ha chiamato alla fede: “il giudizio è questo: la luce è già venuta nel mondo” (Giov. 3,19)
La fede diviene amore, un bisogno naturale dell’uomo, nulla di misterioso vi è in essa ed è per questo che va demitizzata, per riportarla al suo vero messaggio originario.
La fede cerca di mostrare all’uomo cosa esso sia esattamente come fa la filosofia, con la differenza, sostiene il teologo tedesco, che nella fede la naturalezza dell’uomo deve essere guidata dall’intervento di Dio. Nuovo Testamento e filosofia convergono sul fatto che l’uomo possa diventare cosa egli sia già, basta prendere coraggio delle proprie azioni e rendersene consapevoli.
Cristo serve a riscattare l’uomo che si è voluto rendere autonomo rispetto a Dio, e l’uomo, grazie al Suo intervento ritorna ad essere libero; libero di decidere se scegliere la fede, donandosi agli altri o rimanere semplice oggetto e soggetto di natura.
Gesù è un reale personaggio storico, scrive Bultmann, e la sua parola è un fenomeno socio-culturale: così la dottrina cristiana può essere accettata, poiché non viene più avvolta nel mistero sebbene rimanga un fatto di fede.
E’ proprio l’indimostrabilità specifica della fede che mette l’annuncio Cristiano al sicuro, e riprendendo le parole di Bultmann: “in questo modo viene affermato il paradosso della presenza dell’al di là divino nella storia: il verbo si è fatto carne”.
La dottrina cristiana fa in modo che all’uomo sia sempre offerto il momento della libertà. Ogni istante diventa escatologico, è una rinascita che può liberare l’uomo dal suo destino storico e renderlo libero.
A chi si lacera e non trova alcun senso nella storia e nella vita a causa della sfiducia nella modernità, Bultmann risponde di non guardare alla storia universale, ma cercare sicurezza nella propria storia personale. In ogni istante sonnecchia la possibilità di essere un istante escatologico, a noi lo svegliarlo.

Cristianesimo e Neoplatonismo

“Credo in un solo Dio, Padre onnipotente,creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili. Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito, Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero; generato, non creato della stessa sostanza del Padre per mezzo di lui tutte le cose sono state create.
Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo”.
L’Atto di fede, il vero Credo, stabilisce la sostanza del Figlio tramite il concetto della sostanza medesima.
Cristo si trova, assieme allo Spirito Santo, compartecipe della Divinità di Dio Padre, ed allo stesso tempo, gli ultimi due, sono generati da Dio stesso.
Uno, intelletto, Anima sono le tre ennadi, i primi principi Neoplatonici che possono venire comparati ed associati al Dio, uno e trino, Cristiano.
L’Uno genera, non per volontà ma per emanazione, per sua natura, impossibile per lui non generare; in esso nessuna volontà di creare, nessun atto d’amore, tanto caro al Cristianesimo e necessario per la fede, in quanto l’uomo si troverebbe solo e disperato senza l’ immenso amore che proviene da Dio.
L’Uno neoplatonico non si cura delle sue creature, egli emana senza fare altro; Esso sta aldisopra, completamente immobile, “inconoscibile”, è la processione che fa sì che venga effettivamente creato il tutto, dall’immensa pienezza dell’uno, e di ciò se ne occupa la seconda ipostasi, l’intelligenza, o Nus.
Infine la conversione: tutte le creature, irradiate dalla luce del Primo principio, tendono a riunirsi ad esso, a essere nuovamente un tutt’uno annullando il molteplice.
È l’Anima, la terza ipostasi che cerca di illuminare le singole anime e farle volgere all’ Uno; altrimenti, sarebbero paghe della loro fisicità, a causa di una colpa, tanto cara a Plotino, ovvero l’ essere dimentiche della propria appartenenza al divino.
Il mondo è gerarchico per i Neoplatonici, ognuno ha una propria posizione che deve mantenere, per necessità, in base alla divinità che è presente in esso. Non ricevono direttamente la luce dal Primo principio, ma la possono vedere esclusivamente dalle enadi che seguono ad esso, ed ecco che l’uomo volgendo lo sguardo all’Anima può avvicinarsi ad una parte del divino, l’Anima essendo irradiata dal Nus si illumina di esso e l’Intelletto partecipa direttamente dell’ Uno.
L’Uno è “solamente” e semplicemente esso stesso, forse un Non-essere seguendo la dottrina di Damascio, ma comunque è sopra a tutto e tutto deve a lui la sua esistenza.
Possono le tre ipostasi Neoplatoniche sovrapporsi a quelle cristiane?
Può il Padre essere associato al primo principio Uno, il Figlio essere associato al Nus e infine lo Spirito Santo all’Anima?
È arduo trovare una risposta sufficiente o comunque che possa soddisfare la mente umana, ricordandoci sempre le parole di S.Paolo che la stoltezza di Dio è superiore all’intelligenza degli uomini (Prima Lettera ai Corinzi, 25).
Possiamo però pensare alle monadi divine, le quali sono unite nelle loro distinzioni e divise nella loro unità.
Esse sono presenti nel formare una divinità più alta, ma comunque ognuna gioca un ruolo fondamentale per la dottrina cristiana.
Come vuole il Credo, Dio primo principio, crea e non genera il mondo, ma genera suo figlio che salva l’umanità e, lo Spirito Santo è necessario per fare in modo che Cristo, sia “incarnato nel seno della vergine Maria”
Ed eccole infine tutte e tre le Ipostasi Neoplatoniche e cristiane, con i loro ruoli gerarchici stabiliti e quello che a noi è lecito fare, ovvero glorificarle: “Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, e procede dal Padre e dal Figlio e con il Padre ed il Figlio è adorato e glorificato”.
È il concilio di Nicea avvenuto nel 321, primo concilio della storia, a risolvere il problema della divinità di Cristo: Egli è fatto della stessa sostanza del padre, Egli è divino, è colui che illumina l’umanità, in quanto apre gli occhi agli uomini ed essi possono vedere quanto Dio li ama, tanto da sacrificare suo figlio, generato da Se medesimo, per salvarli. Dio ama e partecipa alla vita degli uomini soffrendo, Dio non è più, per i Cristiani supersensibile e superinconoscibile, non è più solo bene ma è Bontà e questo, probabilmente è l’elemento che realmente distingue il Neoplatonismo dal Cristianesimo.

mercoledì 21 maggio 2008

L’emancipazione femminile in John Stuart Mill

INTRODUZIONE

John Stuart Mill (Londra 1806-Avignone 1873) fu filosofo ed economista inglese.
L’intera conoscenza è per lui d’origine empirica.
Fu particolarmente importante, per lui, il concetto di felicità propria e altrui, unita all’inalienabile questione della libertà individuale.
La possibile realizzazione della felicità di ciascun individuo comporta un accrescimento di piacere, all’interno di una prospettiva utilitaristica.
Egli fu ostile al socialismo in quanto pensava che, seguendo una politica di tipo socialista, si sarebbe limitata la libertà personale.
Proponeva una politica di riforme istituzionali e distributive intese a realizzare una maggiore giustizia e un governo di tutti per tutti.
Queste riforme potevano essere effettuate grazie al criterio utilitarista del massimo benessere per il maggior numero di individui, tramite un sistema liberale e di tutela delle minoranze.

Punto di partenza delle concezioni di Mill è la visione fondamentalmente Hobbesiana della condizione umana.
La natura non produce tutti gli oggetti di desiderio necessari a soddisfare l’intera umanità e quindi è necessario il lavoro per ottenere sia i mezzi di sussistenza, sia i mezzi per i nostri piaceri.
Col passaggio dallo stato selvaggio allo stato pastorale ha inizio l’accumulazione delle ricchezze e, con questo, l’ineguaglianza dei beni.
La transizione allo stato successivo, quello agricolo, porta all’estrema povertà degli agricoltori che lavorano la terra di chi la possiede e ciò porta insicurezza generale.
L’insicurezza fa apparire il governo dispotico, che cerca di tenere a freno eventuali rivolte dei soggetti resi “schiavi”, contro chi detiene il potere.
Mill afferma che le società Asiatiche, che non si sono mai evolute dallo stadio agricolo, sono ancora immobili, non riescono ad evolversi e sono destinate alla stagnazione.
Il mondo occidentale si è evoluto verso la libertà, verso la sicurezza e lo sviluppo, mentre il mondo orientale è legato al dispotismo, all’insicurezza e alla stagnazione.
L’antitesi tra governi liberali e governi dispotici, il primo riferito appunto all’occidente e il secondo all’oriente, ha una valenza importantissima anche in Montesquieu.
Montesquieu sostiene che ci sono cause fisiche e cause morali che danno vita al dispotismo asiatico.
Le cause fisiche sono legate al territorio e al clima, quelle morali all’educazione e alla religione.
Dove vi è potere dispotico, non vi è proprietà privata, la quale, per Montesquieu come per Mill, è indispensabile per il benessere e la felicità degli individui.
Nel dispotismo sono presenti tutti e tre i tipi di schiavitù enunciati da Montesquieu: quello civile, quello politico e quello della sfera privata o schiavitù domestica.
Nella schiavitù domestica viene messo in luce lo squilibrio nel rapporto tra uomo e donna.
Problema fondamentale in Mill è proprio la subordinazione femminile presente anche nel mondo occidentale.
L’emancipazione femminile per Mill gioca un ruolo fondamentale per garantire quella felicità necessaria, per il giusto funzionamento del governo.

La religione, come strumento del despota, ha la tendenza ad addomesticare i sudditi.

La religione Islamica infatti, al contrario del Cristianesimo, che ha contribuito all’emancipazione degli uomini e delle donne, ha contribuito fortemente alla schiavitù.

La poligamia del mondo islamico è sinonimo di sottomissione della donna, la quale risulta essere un oggetto, ed è tenuta sotto custodia.

Nello “Spirito delle Leggi” Montesquieu afferma che negli stati dispotici le donne sono oggetti di lusso e devono vivere in una condizione di estrema schiavitù.

L’Islam, termine che significa dedizione e sottomissione incondizionata ad Allah, cerca di controllare la libido nell’interesse dell’ordine collettivo e, questo significa controllo della sessualità femminile, la quale è vista come una minaccia per l’ordine sociale.

“Essendo stata demonizzata la donna è stata bandita dalla vita pubblica e ridotta al ruolo di oggetto sessuale e di riproduzione; il velo”, che le donne sono costrette o indotte ad indossare, “è diventato simbolo della assenza del femminile in una società patriarcale”[1]

La donna anche ai nostri giorni, poiché portatrice del male e dell’impurità, continua ad attirare su di sè l’ira dell’uomo ed è costretta a nascondersi dietro al velo e alle mura domestiche.
L’islam, per Montesquieu, risulta essere la religione della crudeltà, della ferocia, mentre il cristianesimo è invece la religione della mitezza.
Anche per Mill, come per Montesquieu, gli individui che sottostanno ad un governo dispotico, sono principalmente di carattere imbelle e rassegnato, ma soprattutto debole.
Il rimedio per Mill è quello di una maggiore istruzione, per il miglioramento dell’intelligenza: bisogna abbandonare superstizioni e usanze che interferiscono sulla produttività dell’individuo e sul corretto sviluppo delle capacità mentali, al fine di destare l’interesse per nuovi oggetti di desiderio.
Il tema dell’educazione è centrale anche nella via da seguire per giungere all’emancipazione femminile.
In un governo dispotico, l’individuo non può essere felice.
La massima felicità degli individui può essere raggiunta solo assicurando al singolo la maggior quantità possibile del prodotto del suo lavoro.
E’ solo tramite questo che gli individui saranno incentivati a produrre maggior quantità di oggetti di desiderio. Per questo però, è necessario una adeguata forma di governo poiché, risulta altrimenti ovvio, che chi non possegga gli oggetti del suo desiderio, sarà indotto a sottrarli ad un altro individuo più debole di lui.
E’ quindi indispensabile che gli uomini si riuniscano e deleghino ad un piccolo gruppo, il potere necessario per proteggere tutti.
Il fine del governo è quindi la protezione della persona e della proprietà.
La stessa legge però che fa in modo che un uomo, se non controllato, tenda a sottrarre ai più deboli oggetti di desiderio, fa si che lo stesso governo, che dovrebbe in teoria proteggere da questo pericolo gli individui, debba essere controllato: i detentori del potere politico, se non impediti, lo useranno per depredare i loro sudditi.
Il “problema politico” è una questione di controllo e sicurezza contro l’abuso di potere da parte dei governanti.
La forma migliore di governo risulta essere il sistema rappresentativo e deve avere una identità di interesse con gli elettori che rappresenta, altrimenti anch’esso abuserebbe inevitabilmente dei suoi poteri.
Questa identità può essere assicurata attraverso la limitazione della durata del mandato.

PARTE PRIMA

La questione dell’emancipazione femminile costituisce uno degli assi portanti del progetto etico-politico di Mill.Il testo “Sull’eguaglianza e l’emancipazione femminile”, scritto insieme alla moglie Marhet Taylor, viene terminato nel 1861; Mill decide di aspettare ben otto anni prima di pubblicarlo temendo che l’umanità non fosse pronta alle verità sull’emancipazione e che questo, potesse portare notevoli problemi al messaggio principale del libro, ovvero l’uguaglianza tra uomo e donna.“Nella situazione in lui si trovano attualmente le menti femminili, del tutto prive di istruzione, e con la loro naturale timidezza (…), sarebbe probabilmente dannoso eliminare in un colpo solo ogni restrizione”[2]

Effettivamente durante gli otto anni di attesa di pubblicazione del trattato, novità ne sono avvenute: era nato in Inghilterra e in america il movimento femminista per il suffragio universale.
Ci sono due principi cardine sul quale verte il discorso della libertà in questo autore:
Il primo è quello dell’eguaglianza morale, giuridica e politica degli uomini e delle donne il secondo è quello dell’autodeterminazione individuale.
L’eguaglianza sessuale nella sfera pubblica quanto in quella privata e sociale, ha un ruolo fondamentale nell’evoluzione della democrazia moderna.
Per Mill la questione femminile è ancora più urgente e importante del problema sociale degli operai.
Il problema femminile risulta di maggiore rilievo in quanto tocca donne d’ogni classe ed età, e la loro inferiorità sembra essere radicata nei sentimenti e nei costumi sociali, oltre che codificata nelle leggi e nelle istituzioni; la condizione delle donne è simile a quella degli schiavi.
Uno dei primi argomenti trattati da Mill e dalla Taylor riguarda il problema del matrimonio e del divorzio.
Mill afferma che la legge del matrimonio serve a costringere i sensi degli individui a stare “forzatamente” con altri, nella speranza di costringere anche l’anima (o di costringere i sensi perché dell’anima non ci si interessa affatto).
Poco importa se una donna o un uomo sono innamorati, l’importante è che legalmente restino uniti e che la legge limiti, se non riesca ad impedire del tutto, eventuali tradimenti.
Infatti, se si scegliesse unicamente l’unione con una persona dell’altro sesso in base alla felicità che può portarci lo stare con essa, ecco che non avremmo più bisogno di regole limitatorie sulla libertà di unirsi o separarsi.
Per Mill l’indissolubilità del matrimonio, per lungo tempo, è stata una notevole sicurezza per le donne: “Credo non possa esservi dubbio alcuno sul fatto che l’indissolubilità del matrimonio abbia agito con forza nell’elevare la posizione sociale della donna”[3]

Una donna dal vero animo libero, può tranquillamente indurre l’uomo a farsi ripudiare pur di non stare con lui, ma per la maggior parte delle donne, restare col marito crea una situazione di sicurezza; oltretutto ciò che più conta per la donna, è avere la certezza di poter rimanere legata ai figli.
Il marito è interessato alla donna in quanto sua moglie, e per la sua rispettabilità necessita che anche la donna sia rispettata.
Per Mill il matrimonio deve essere un fatto di scelta e non di necessità, la donna deve aspirare a qualcosa di più che avere un protettore.
La condizione di una donna sola non è più un pericolo, la legge e l’opinione pubblica sono in grado di metterla al riparo da offese e violenze.
La donna deve iniziare a prendere coscienza del fatto che non è una proprietà del marito e deve farsi valere per cosa essa effettivamente sia.
Per questi autori è assurdo parlare di uguaglianza fino a che il matrimonio è un vincolo indissolubile.
“Ora se questa è l’unica cosa che la vita umana ha da offrire alla donna, è davvero poca cosa (…) ma è insito nell’animo femminile l’accontentarsi più facilmente”[4].
Per questo motivo, l’accontentarsi pur di avere una posizione rispettabile e pur di rimanere insieme ai propri figli, alcune donne sono avverse al divorzio.
Esse sono abituate a pensare che il loro potere sugli uomini si possa fondare principalmente sulla sensualità e che l’uomo, se non fosse vincolato da leggi e dall’opinione generale, cercherebbe questa sensualità altrove.

Nel matrimonio esse cercano una casa, lo status e la condizione di donna sposata e, una volta ottenuto tutto ciò, l’indissolubilità del matrimonio, assicura di mantenere tutto questo.

Esse sono portate a credere che, se il matrimonio viene sciolto, perderebbero tutto quello che hanno ottenuto, compreso il riconoscimento della società.
“Questa è l’assurdità e l’immoralità di uno stato della società (…) nel quale la posizione sociale della donna dipende dal fatto di essere o no sposate”[5]

Mill afferma che sia privo di senso, oltre al fatto che due persone si amino e siano amiche l’una dell’altra, che ci siano motivi sociali per cui un uomo e una donna si debbano sposare.
Non è la legge, ma sono i costumi e l’educazione a costringere una donna a sposarsi.
Infatti, le donne sole, se possiedono delle proprietà, legislativamente sono avvantaggiate e le interdizioni sono maggiori se la donna è sposata.
Le donne sono abituate fin da piccole a pensare di non poter vivere senza un uomo al loro fianco che le mantenga e le protegga.
Essere sposate è lo scopo della loro esistenza e una volta raggiunto questo scopo, esse cessano di vivere per qualsiasi altro obbiettivo utile.
Esse vengono istruite solo per sposarsi: “Per tanto una donna si sente e viene sentita come una sorta di escrescenza sulla superficie della terra, senza una libertà (….) sua propria”[6]

Averroè stesso aveva denunciato la situazione delle donne in oriente, trattate come fossero delle piante : “In questi nostri stati non si conosce la capacità della donna, perché vengono impiegate soltanto per la riproduzione. Per questo motivo sono assegnate al servizio dei loro coniugi. Ciò riduce nulle le loro attività. Appare spesso che assomiglino a piante”.
Non c’è nessuna disuguaglianza effettiva per Mill tra uomo e donna, se non la forza fisica.
Ma la società non si basa più sul diritto del più forte, il potere effettivo di un uomo non viene più acquisito grazie alla forza.
Ecco quindi che, una volta tolta la forza come unica differenza effettiva, le disuguaglianze non hanno più diritto di sussistere.
Occorre che la donna venga educata in modo da non dovere dipendere né dal padre, né dal marito per la propria sussistenza.
Il non essere indipendente la rende a tutti gli effetti schiava e giocattolo nelle mani dell’uomo.
Mill mette anche in luce quanto sia sbagliato e privo di senso il dire che le donne sono fatte per la sovrintendenza della casa e l’educazione dei figli.

Per quanto riguarda l’educazione dei figli, ovviamente, ciò che la donna sa, cercherà di insegnarlo ai bambini, ma è inadeguato definire questo l’occupazione della donna.
L’educazione che spetta alla madre nei confronti dei figli è quella dei sentimenti e della dimensione morale, ma questa educazione viene svolta nel tempo, stando col figlio, facendo in modo che lui la prenda come modello, rendendolo felice offrendogli quelle facoltà attraverso le quali possa sentirsi in armonia con tutte le cose.
Ma effettivamente, se i figli devono imparare dalla madre la dimensione morale, che cosa potranno apprendere dal fatto che lei è considerata dal marito come un oggetto?
Non sarebbe forse più giusto mostrare ai figli una situazione di parità e di uguali diritti?
La questione “dei figli” è una delle argomentazioni portate, da chi crede nell’indissolubilità del matrimonio, contro quelli a favore del divorzio.
Mill insieme alla moglie, sostiene che vi possano essere altre scelte di matrimonio durante la vita di un individuo.
Solitamente la prima scelta viene fatta quando ancora due individui sono giovani, non si conoscono adeguatamente e non hanno nemmeno una adeguata conoscenza dell’animo umano in generale. E allora, perché costringerli a stare assieme per tutta la vita?
Questo però, non deve essere un incentivo al divorzio, o a sposarsi sapendo di avere altre possibilità; infatti bisogna ricordarsi che lo scioglimento di un matrimonio è sempre un fallimento e vari fallimenti hanno effetti negativi sull’animo.
I figli sono un argomento centrale anche per Mill, tanto da dire che se ve ne sono, un uomo e una donna, non dovrebbero separarsi, purchè non vi siano estreme depravazioni all’interno dell’unione, poiché la felicità di essi dipende tutta dai genitori.
Mill crede che sia meglio non avere figli fino al sicuro momento in cui un uomo e una donna non ritengano di avere fatto la scelta giusta sposandosi, e siano certi di avere trovato la felicità.
Bisogna in ogni istante ricordarsi che il figlio è l’unico e vero legame indissolubile che due esseri umani possono avere; è profondamente ingiusto avere dei bambini come ulteriore legame e ricatto per fare si che l’uomo mantenga la donna, o che la donna sia ancora più schiava del marito.

PARTE SECONDA

Nel 1851, nelle zone più illuminate degli Stati Uniti è sorto un movimento organizzato rivolto all’emancipazione femminile.
Questo movimento rivendica l’eguaglianza del diritto civile sociale e giuridico con i cittadini maschi della comunità.
Questo è un movimento non a favore di donne, ma di donne.
Già nel 1850 nello stato dell’Ohio era nata una “convenzione di donne”.
Queste donne promuovono i loro principi e non hanno paura di affermare pubblicamente che:

“ - ogni essere umano adulto (…) ha diritto di partecipare direttamente al governo stesso;

- Le donne hanno diritto al suffragio ed a essere giudicate eleggibili per incarichi pubblici;

- Che la carriera delle donne debba rendere giustizia alle loro facoltà”[7]

Avere voce nel governo dovrebbe essere diritto di tutti: è insensato che vi siano due caste che dividono l’umanità, una adeguata per governare, e l’altra un danno assoluto, una fonte di perversione.
Che le donne siano inferiori è un pregiudizio che si è radicato all’interno degli animi e dei costumi, questo però non significa che le cose non possano cambiare, e che i pregiudizi non possano essere cancellati.
Le donne hanno dimostrato fin dall’antichità di essere adeguate alle più elevate funzioni sociali, e nella precisa misura in cui vi sono state ammesse, hanno dimostrato una vocazione nel regnare ( Elisabetta, Isabella di Castiglia, e molte altre hanno mostrato quanti pochi re nella storia, abbiano affrontato circostanze più difficili, al pari loro).
Ma perché viene mostrata una donna incapace di poter fare parte della vita politica?

Per Mill e per sua moglie i motivi sono essenzialmente i seguenti:

- L’incompatibilità della vita attiva pubblica con la maternità e con le occupazioni domestiche;

- l’inopportunità di aumentare “le pressioni già eccessive della competizione in ogni tipo di impiego professionale e il preteso effetto di inasprimento che la vita attiva eserciterebbe sul carattere delle donne”[8].

La realtà è che una parte dell’umanità e più precisamente la metà, vive in uno stato di subordinazione forzata a causa di un condizionamento mentale e, l’abitudine alla sottomissione della donna, la rende servile mentalmente.
La sottomissione viene inculcata fin dall’infanzia, tramite l’educazione, come una qualità che garantisce e conferisce grazia e femminilità.
Quello che le donne devono comprendere è che eguali diritti e riconoscimento sociale, non minano la femminilità.
Bisogna anche cercare di capire quanto la subordinazione del sesso femminile, sia un grave ostacolo al miglioramento degli esseri umani.
Il fatto che la donna sia esclusa dalla vita politica, non è stato deciso tramite un metodo empirico per cui si è dimostrato che essa non è adatta a governare o a far parte della vita pubblica.

L’assoggettare il sesso più debole fisicamente, ha un fondamento puramente astratto e sorge solo dal fatto che, fin dagli albori della società umana, la donna si trovava in una situazione di schiavitù rispetto ad un uomo.
Le leggi hanno reso legale quello che prima derivava esclusivamente da un fatto fisico.

In questo modo chi si trovava costretto all’obbedienza per timore del più forte, ci si ritrova obbligato per legge.
Ma Mill afferma che l’ineguaglianza tra uomo e donna non ha altro fondamento se non la legge del più forte.

In età passate la legge del più forte definiva integralmente le regole di vita; la storia mostra la crudeltà dell’uomo, tutto era in mano ai più potenti ed essi potevano decidere anche sulla vita di un essere umano inferiore.

Gli stoici sono stati i primi a insegnare, come parte della dottrina morale, che i liberi hanno obblighi nei confronti dei loro schiavi.

Nessuno, dopo che il cristianesimo divenne dominante come religione, ha più potuto essere estraneo a questa dottrina di eguaglianza tra gli uomini, almeno in teoria.

Nessuno però può fare sì che, chi brama il potere, non lo voglia, soprattutto su chi gli sta vicino.

Molti sostengono che la sottomissione delle donne sia naturale in quanto usuale e, oltretutto, il dominio degli uomini non è basato sulla forza, ma sul consenso.

Gli uomini non vogliono solo l’obbedienza delle donne, vogliono la loro anima e la loro mente, vogliono una schiava consenziente, educata fin da piccola all’obbedienza e alla dedizione.

Ora molte donne però, non accettano più di essere schiave, esse vogliono una istruzione al pari degli uomini e poter entrare a far parte di quelle occupazioni dalle quali per molto tempo sono state escluse.

Le donne devono combattere contro le morali che impongono loro di essere solo madre e sposa e di non avere altra vita, se non negli affetti.

Le donne sono state rese mansuete, sono state addomesticate soprattutto con la questione “figli” e “dipendenza economica”: per questi elementi liberarsi da questa condizione è quasi impossibile.

Le donne devono comprendere che nella società moderna nessuno nasce più con un posto sociale prestabilito, ma ognuno è libero di impiegare le proprie facoltà per raggiungere il posto che più gli si addice all’interno della società.

Le interdizioni nei confronti delle donne, sono l’unico caso per cui le leggi e le istituzioni e l’opinione generale, sanciscono che esse nascono con un posto prefissato all’interno della società.

Ciò che viene definito “natura femminile”, è qualcosa di puramente artificiale che in natura non esiste e che, non esisterebbe nemmeno negli animi delle donne se esse non venissero addestrate ad avere determinate caratteristiche.

“Per le donne si è sempre preceduti ad una coltivazione in serra di certe loro capacità naturali per il beneficio e il piacere dei loro padroni”[9]

Le vere differenze psicologiche tra uomo e donna, non sono veramente conosciute a livello empirico. Infatti un uomo ha una conoscenza imperfetta della compagna che gli sta al fianco, in quanto essa è stata addestrata ad avere determinate caratteristiche, ad evitare di controbattere e a starsene mansueta a compiere il proprio dovere.

Le donne preferiscono mantenere un comportamento da inferiori pur di non perdere l’affetto del loro padrone e per questo motivo, mostreranno sempre il lato migliore.

Originariamente le donne sono prese con la forza o cedute dal padre al marito, passano dal controllo dell’uno a quello dell’altro, non sono mai libere di scelte e aspirazioni proprie.

Prima del Cristianesimo il marito aveva diritto di vita e di morte sulla moglie, egli era la sua unica legge. Il marito per le antiche leggi inglesi era considerato un sovrano.

Ora formalmente non è più così ma, dice Mill, la moglie non può fare nulla a meno di un tacito assenso del marito.

Ogni cosa che è di proprietà della donna va al marito: “i due vengono dichiarati una sola persona, per legge, allo scopo di concludere che ciò che è della moglie è del marito, ma non si trae mai la conclusione inversa, che tutto ciò che è del marito è della moglie.”[10]

Nessuno schiavo è altrettanto asservito quanto una moglie, la quale è obbligata a essere al servizio del padrone in ogni momento, essendo costretta anche a doversi sottoporre a qualsiasi tipo di brutalità e violenza psicologica o sessuale.

I figli sono, per legge, del marito, egli può decidere se mostrarli o no alla moglie nel caso di separazione. La donna non ha alcun diritto su di loro o sulla loro educazione; se la donna lascia il marito essa non può portare nulla con sé e nemmeno i figli.

Un matrimonio dovrebbe basarsi sulla stima reciproca, sull’affetto, non sul rapporto padrone schiavo, tenuto assieme dalla paura di perdere una posizione sociale o i figli.

CONCLUSIONE

La società rende l’intera vita della donna un sacrificio di sé, esige da lei un costante controllo su tutte le sue inclinazioni che vengono reputate, dalla società, non femminili.
Mill sostiene che la donna sacrifica l’intera sua vita per il marito, il quale non sacrificherà mai nulla per lei.
La relazione tra marito e moglie è simile a quella politica del despota e dei suoi sudditi.
Mill utilizza la categoria del dispotismo per descrivere e criticare le relazioni tra uomo e donna, all’interno della famiglia patriarcale.
Dispotismo designa un sistema di relazioni di potere nel quale il consenso, come principio di legittimazione, è assente.
Il despota cerca di inibire e debilitare lo spirito dei subordinati; essi diventano mentalmente dipendenti.
Questa perversa categoria di governo, come il dominio degli uomini sulle donne, si basa sul controllo delle emozioni e sulla mente, non semplicemente sulle azioni.
Il despota stimola la paura e l’affetto, chi viene reso schiavo diventa affezionato e addomesticato.

Esso fa si che venga corrosa l’autostima e l’autonomia morale, induce i suoi soggetti a trasferire a lui la loro stessa libertà in modo che egli sia percepito come una fonte di sicurezza e di tutela, invece che di coercizione e paura.

Mill denuncia quindi il modello patriarcale di famiglia, dove il marito despota annulla la capacità della donna di fare scelte autonome.

Le donne vengono private della loro libertà positiva, ossia la moralità, per fare in modo che mettano nelle mani del marito la libertà negativa, ossia la sicurezza.

Le donne devono essere rese apatiche e docili, al punto da consegnare spontaneamente al marito la propria libertà di pensare a sé stesse come individui.

Tutti gli esseri però, secondo Mill sono nati con la potenzialità di essere individui autonomi.

I genitori dovrebbero far si che il figlio cresca sviluppando una propria autonomia morale.

Al contrario il marito despota, fa si che la moglie rimanga sempre in uno stato infantile, priva di ogni tipo di libertà morale.

La relazione di dispotismo è finalizzata a rendere la donna perennemente subalterna.

Per Mill vi è necessità effettiva che le donne acquistino la libertà; il concetto di società tra esseri umani, a meno che non si tratti di una relazione schiavo-padrone, è impossibile se non alla condizione che l’interesse di tutti venga preso in considerazione, al fine di garantire la felicità.

Bisogna rendersi conto quanto la felicità di tutti sia un bene per l’umanità e questa si conquisti solo dando libertà a tutti gli individui in ugual modo.

BIBLIOGRAFIA

“Sull’eguaglianza e l’emancipazione femminile”, J.S. Mill e M.Taylor, Enaudi, Torino 2001

“Dispotismo: genesi e sviluppo di un concetto filosofico-politico” A cura di Domenico Felice, Liguri editore 2002

“Dietro il velo”, E. Heller e H. Mosbahi, editori La Terza 1993


[1] “Dietro il velo”, E. Heller e H. Mosbahi, editori La Terza 1993

[2] “Sull’eguaglianza e l’emancipazione femminile”, J.S. Mill e M.Taylor, Enaudi, Torino 2001 pag.27

[3] “Sull’eguaglianza e l’emancipazione femminile”, J.S. Mill e M.Taylor, Enaudi, Torino 2001 pag.8

[4] ivi pag.9

[5] ivi pag.10

[6] ivi pag.11

[7] “Sull’eguaglianza e l’emancipazione femminile”, J.S. Mill e M.Taylor, Enaudi, Torino 2001 pag.37

[8] “Sull’eguaglianza e l’emancipazione femminile”, J.S. Mill e M.Taylor, Enaudi, Torino 2001 pag.47

[9] “Sull’eguaglianza e l’emancipazione femminile”, J.S. Mill e M.Taylor, Enaudi, Torino 2001 pag.98

[10] “Sull’eguaglianza e l’emancipazione femminile”, J.S. Mill e M.Taylor, Enaudi, Torino 2001 pag.111

lunedì 19 maggio 2008

Dionigi l’Areopagita: neoplatonico o Cristiano?


Tanto si specula, e si è speculato sull’autore del “Corpus dionisiacum” al fine di giungere alla verità su chi in realtà fosse: già Erasmo e Lorenzo Valla provarono a dare un reale nome a questo teologo ma tuttora si ricerca, nella storia, un personaggio che possa assumere definitivamente il ruolo dello scrittore dei “Nomi divini”; purtroppo sono state avanzate solo ipotesi e ancora si continua ad anteporre Pseudo, davanti a Dionigi..

Ma è possibile che Dionigi l’Areopagita abbia voluto inserire dottrine neoplatoniche all’interno del Cristianesimo per riscattare la scuola di Atene, dalla improvvisa chiusura avvenuta nel 529, per opera di Giustiniano?

Possibile che un individuo scaltro e tremendamente acculturato abbia potuto crearsi una falsa identità, oltretutto di estremo rispetto (Dionigi viene convertito da S Paolo nell’Areopago di Atene), e sia stato talmente presuntuoso da decidere di essere menzionato negli Atti degli Apostoli, divenendo a tutti gli effetti un rispettabilissimo personaggio canonico? Dichiara inoltre di avere assistito direttamente al funerale della Vergine, addirittura di conoscere Giovanni e S. Paolo e assiste, solo lui, niente meno che a due oscuramenti del cielo durante la morte di Cristo, anziché ad uno.

Certamente leggendo il “Corpo dionisiaco” dubbi sulla “via” seguita da questo teologo ve ne sono: non ci sono riferimenti al Buon Dio personale, al Dio padre tanto caro al cristianesimo- Dio è “in conoscibile”, superiore e diverso da tutto e, riprendendo il concetto della trascendenza del Primo principio alla base del Neoplatonismo, Dio è addirittura un “non-essere” superiore all’intelligenza e al pensiero.

Debitore estremo, per le sue teorie, al Commento di Proclo sul “Parmenide” di Platone, si fanno risalire le opere di Dionigi in una età compresa tra il 451, data del concilio di Calcedonia (poiché nelle sue teorie vi sono influenze del dogma della unica natura di Cristo) e la data in cui vi è la effettiva circolazione della opera: il 533.

Ma per quale motivo si è avanzata l’ipotesi, che in realtà il teologo Cristiano Dionigi, possa essere un neoplatonico e addirittura alcuni, tra cui Carlo Maria Mazzucchi, l’hanno potuto identificare addirittura con Damascio, esponente del neoplatonismo e Diadoco di Atene nel 515?

Principalmente è la via negativa usata dall’autore a mettere in dubbio la sua fede Cristiana, per non parlare anche dell’importanza che gioca la gerarchia ferrea presente nel mondo, l’assenza del peccato originale (infatti il male, seguendo la dottrina di Proclo, è niente meno che la parziale assenza di Bene, in quanto tutte le anime e tutti gli esseri sono stati creati dal Primo Principio-Bene e ad esso tendono) e il fatto più importante che Dio è oltre il pensiero umano (medesimo punto a cui arriva anche lo stesso Damascio).

Ma abbiamo prove certe della possibile sovrapposizione della figura di Damascio con quella di Dionigi?

Probabilmente quella più importante è che i due autori hanno uno stile molto simile (anzi, usando il loro lessico, SUPER-simile) che entrambi siano personalità forti alle quali non piace essere messi in dubbio e che tutti e due amino particolarmente inventarsi graziose e incredibili storie.

Ma forse, far coincidere i due personaggi è ancora cosa ardua al giorno d’oggi, ma di sicuro lo Pseudo-Dionigi, conosceva molto bene i Neoplatonici (forse suoi avversari o forse suoi “amici”).

Avvolta nel mistero rimane sicuramente, per ora, la figura dello Pseudo-Dionigi, al quale senza dubbio, si deve riconoscere il fatto che della sua teologia si continuerà a parlare.

William Blake



Il sorriso

C’è un sorriso d’amore,

E c’è un sorriso della seduzione,

Un sorriso c’è dei due sorrisi

Dove s’incontrano quei due sorrisi.

C’è un aggrottamento dell’odio,

E c’è un aggrottamento di disdegno,

ed un aggrottamento c’è degli aggrottamenti

di cui invano tentate di scordarvi.

Poiché a fondo, nel profondo, del cuore penetra,

E affonda nelle midolla delle ossa-

E mai nessun sorriso fu sorriso,

Ma solo quel sorriso solo,

Sorriso che dalla culla alla fossa

Sorridere si può una volta sola;

Quando è sorriso,

a fine ogni miseria.

(William Blake, Il sorriso, in traduzione di Guseppe Ungaretti)


INTRODUZIONE

Nel tentativo di introdurre quel magnifico, complesso mondo che sta nelle opere di William Blake (opere date da un insieme inseparabile tra parte visiva e parte poetica), risulta necessario rifarsi al concetto di quel cambiamento culturale che viene chiamato “rivoluzione romantica” e che tende a ridare un’unità segreta e quasi divina all’universo umano e naturale, che i Lumi avevano lacerato.

“Con la rivoluzione romantica ha luogo (…) un cambiamento radicale nel modo di concepire il mondo e il rapporto dell’uomo con quest’ultimo, sia sul piano della sensibilità più individuale e privata, sia su quello della visione globale dell’esistenza umana.”[1] Così Jean-Marie Schaeffer scrive per quanto riguarda la nascita della teoria speculativa dell’arte. Essa diviene sostanzialmente il mezzo per rappresentare l’ontologia, entrare in comunicazione con il Divino e assume l’importante compito di porre rimedio alle carenze del discorso filosofico. Non basta più avere conoscenze del reale, ma inizia a sentirsi la necessità di dominare quella sfera che sembra sfuggire al razionale, e quale modo migliore se non iniziare a creare piccoli (ma immensi) mondi che riflettano ciò che sembra sfuggire ai sensi?

L’intento primo è proprio quello di ridare un’unità teologica all’universo, dove l’uomo si trova ad assumere una posizione d’estrema importanza.

Si pensi al ruolo fondamentale dell’uomo, nella filosofia di Fichte, dove l’io si impone al non-io e quindi la natura funge da teatro delle azioni umane.

“L’universo tutto si rivela un centro, da cui si irradia Dio, ne consegue che anche l’uomo si può collocare in ciascuno di questi punti per contemplare lo spettacolo magico di questa irradiazione divina che si propaga da lui”[2].

È questa contemplazione del divino che gli artisti vogliono mostrare nelle loro creazioni, partendo dal presupposto che l’infinito è il vero campo della conoscenza umana.

L’artista si trova ad assumere un ruolo importante, ed è lui che diventa parte dell’infinito tramite la sua creazione.

Novalis afferma che la superiorità della poesia, rispetto alla filosofia, è data dalla sfera puramente interna e organica della prima e che essa possiede la forza di realizzare il compenetrarsi delle singole unità, mentre la seconda rimane esterna.

Ogni poeta si trova quindi in una posizione privilegiata, fuori del Tempo materiale, sente di poter assaggiare l’infinito, ma è consapevole di non riuscire a comprenderlo del tutto.

Per Vico è il mondo dell’indefinito, il mondo dell’ambivalente, delle immagini vaghe che danno luogo al linguaggio poetico, e proprio a causa di questa condizione infelice, l’uomo si rende conto di fare parte di un insieme inseparabile e superiore, ma di non riuscire a visualizzarlo e descriverlo: “ (…) i primi uomini delle nazioni gentili, come fanciulli del genere umano, (…) dalla loro idea criavan essi le cose, ma con infinita differenza però dal creare che fa Iddio: perrocché Dio, nel suo infinito intendimento, conosce e, conoscendole, cria le cose; essi per la loro robusta ignoranza, il facevano in forza di una corpolentissima fantasia, (…) onde furon detti poeti”[3].

Seguendo l’interpretazione data da Pasquale Scoccio al libro terzo della “Scienza Nuova” di Vico, se ogni poeta conoscesse il tutto in modo vivido e razionale, non riuscirebbe a creare quelle magnifiche opere che gli artisti producono: “Vico, capovolgendo ogni tesi (…) quanto più difetta la riflessione tanto più abbonda la strapotente fantasia, sola creatrice di vera poesia.”[4]

Nella negatività della caduta e perdita dell’unità dell’uomo, vi è una luce positiva, data dalla poesia.

Lo stesso principio viene enunciato da Blake: la poesia diviene una “lotta mentale tragica” dell’uomo che cerca di risollevarsi dalla caduta. L’arte si muta in Verità.

L’artista romantico, quindi, vede il mondo dominato dal caos e paradossalmente è proprio questo che permette nuove creazioni artistiche.

È nel 1757 che nasce a Londra William Blake (anno fissato da Swedenborg per l’avvento del nuovo regno di Dio sulla terra). Poeta, incisore, pittore, profeta e compositori di canti, il suo pensiero e la sua arte, in accordo con la rivoluzione romantica, si muovono in direzione di un’unità dove nessuna identità particolare viene tralasciata, dove le parole e il disegno fungono da immagini e cercano di descrivere un’esperienza mistica e concettuale.

Già all’età di quattro anni ha esperienze visionarie; molti hanno asserito che fosse affetto da allucinazioni, ma egli ha sempre affermato che fossero dovute all’immaginazione, facoltà presente in tutti gli uomini.

Da bambino, nell’età dell’Innocenza, questi episodi sono limpidi, chiari, ma crescendo, e facendosi strada nel mondo degli adulti, in altre parole nell’età dell’Esperienza, divengono sempre più lugubri e oscuri.

A dieci anni viene mandato dal padre alla scuola di disegno di Henry Pars (la migliore per giovani artisti), dove può riprodurre i lavori di Michelangelo e Raffaello. Qui vi rimane fino ai quattordici anni per poi collaborare come apprendista da Basire, incisore della Associazione degli Antiquari. È lo stesso Basire a fargli disegnare monumenti e edifici nelle vecchie chiese di Londra (specialmente nell’abbazia di Westmister). Blake gli è sempre stato grato per l’opportunità ricevuta di studiare l’architettura dalla quale è nata la sua grande passione per l’arte gotica che, secondo Blake, rappresenta l’arte Cristiana per eccellenza.

Alla fine dei sette anni di apprendistato da Basire inizia a lavorare come incisore per guadagnarsi da vivere e si iscrive alla Royal Academy.

Nel 1782 sposa Catherine Boucher che lo aiuterà sempre nei suoi lavori di incisione e il marito, per ricambiarla, le insegnerà a scrivere e leggere.

Blake non è un uomo facile, è orgoglioso, polemico e contrario alle mode correnti, tanto nelle arti, quanto nelle idee filosofiche.

Trascorre tutta la sua vita in povertà, i suoi rapporti sociali sono molto complicati e conflittuali; odia la moda del suo tempo, odia la guerra, ritenendo che le arti possano nascere solo in Stati Pacifici, odia quindi chi la combatte (si ricordi le parole urlate ad un soldato: “Dannazione al Re, e dannazione a tutti i soldati, essi sono tutti schiavi”[5]).

Blake si è sempre dimostrato contro l’accademia, contro l’educazione che opprime l’immaginazione rifiutando l’educazione “elegante” che produce artificiosità.

Negli anni giovanili abbraccia le idee rivoluzionarie (rivoluzione Americana e Francese), vedendo in queste la realizzazione del suo concetto mitico di ciclicità: la rivoluzione è vista come un liberarsi dalla tirannide del mondo materiale, verso una libertà visionaria.

Le sue attitudini ribelli, sul piano politico e sociale, nascono, probabilmente, dalle influenza di Paine e Godwing; entrambi ritengono indispensabile un radicale cambiamento sociale per l’intera armonizzazione dell’universo, data da eguali diritti all’interno dell’umanità.

La svolta negativa della Rivoluzione Francese lo porta a cambiare idea e vedere nella politica qualcosa di altro rispetto alla vita umana.

La libertà che invoca non può essere trovata in questo mondo, non può avere un’attuazione storica promossa dalla politica. Egli vede nel sistema il male, in quelle istituzioni (Chiesa e Stato) che l’uomo stesso ha creato, e non nelle città in quanto tali. Così scrive Vita Fortunati6 nel tentativo di dimostrare che Blake non vede in esse il simbolo del vizio: “Sono gli uomini stessi che hanno mercificato la propria esistenza, pervertito le relazioni interpersonali in cambio di cose”. L’innocenza e l’esperienza convivono entrambe nella città, in Blake non vi è più la divisione tradizionale tra questa e la campagna, vista come luogo privilegiato di innocenza. La città è un tutto di cui l’io del poeta fa parte. Come componente di questa umanità caduta, tramite l'immaginazione e le visioni, il poeta deve spingere l’uomo verso la lotta continua per la costruzione della città rigenerata, la “Nuova Gerusalemme”.

Ma Blake rinuncia gradualmente all’impegno politico dei primi canti. Politica e religione iniziano ad apparire ai suoi occhi come qualcosa che distoglie l’interesse dell’uomo dal vero suo fine, in altre parole una trasformazione interiore, una rinascita vera. “Il suo avvenire è nella visione di un’età nuova, latrice di un’originale, impossibile divinità umana”7.

Il vero obbiettivo delle sue opere non appartiene al dibattito della sua epoca, ma al destino umano universale.

Blake abbraccia le teorie del filosofo e mistico svedese Emanuel Swedenborg (1688-1772), che, a seguito di esperienze visionarie, si dà ad una vita ascetica e di speculazioni mistiche, cercando sensi esoterici nella Scrittura tanto da fondare la chiesa della “Nuova Gerusalemme”, ispirata ad un sincretismo biblico-panteistico.

Il pensiero teosofico di Swedenborg si rifà alla tradizione neoplatonica inglese dove il mondo è l’infinita emanazione dello spirito divino. Esso è popolato da influssi buoni e malvagi, incarnati da angeli e demoni. La possibilità del progresso della conoscenza di cosa siamo, teoria accolta in toto da Blake, risiede nella tensione degli opposti stati della mente, non nel loro annullamento in ragione della supremazia di uno sull’altro. I due stati coesistono anche nella figura del Creatore, che allo stesso tempo può essere Dio amorevole o Dio di energia e violenza.

L’uomo è quindi libero di scegliere, ogni volta, tra questi diversi impulsi e il suo perfezionamento continuerà anche dopo la morte del corpo, secondo il proprio carattere.

Blake può essere definito cristiano, ma in un senso ribelle, contrario ad ogni Chiesa. Il suo Cristianesimo è escatologico, rivelatorio e apocalittico.

Si allontana dai dogmi, dalla liturgia e dalla condotta morale, e egli crede in un mondo spirituale, senza il dualismo tra anima e corpo che è alla base della dottrina della Chiesa.

A questa visione dualistica sostituisce quella fatta non da contrari, ma da opposizioni complementari (“Without Contraries there is no Progression”)8. Cristo viene visto come la figura che simboleggia il tutto, la indivisibilità presente in natura e viene mostrato come il Genio Poetico. Blake sostiene la tesi che Arte e Cristianesimo sono una sola cosa, potere della profezia e perdono dei peccati. Quest’ultimo è indispensabile per rendere libero il corpo e lo spirito, mentre il potere della profezia coincide con l’immaginazione.

Nel 1827 muore “cantando i suoi canti di lode e amore della visione; i quali illuminarono la sua morte così come avevano sorretto ed ispirato la sua vita”9.

I suoi scritti poetici possono essere divisi in tre gruppi ma prima di passarli brevemente in rassegna, non possiamo trascurare il fatto che fu sempre lo stesso Blake a pubblicarli, in copie limitate e sempre diverse.

È sicuramente a causa del suo carattere sovversivo, sia politico sia morale, che finisce a fare l’editore di se stesso. Nel 1788 usa per la prima volta la “miniatura a stampa” e ciascuna copia ha un suo tono di colore, data dal suo nuovo modo di stampare. Come scrive la Raine nel suo libro10 sembra che questa nuova tecnica venga dettata, in una visione al poeta, dal fratello morto (Robert, deceduto nel 1787). Consiste nello scrivere le poesie e decorarle direttamente su una lastra di rame con un liquido impenetrabile e quindi utilizzare l’acquaforte dove necessario, in modo che i contorni restino ben visibili come stereotipi. Egli prepara i propri acquarelli sopra un pezzo di marmo con una comunissima colla da falegname e i suoi colori sono semplici e pochi; questi vengono applicati sulla lastra di rame e stampati su fogli. La rilegatura, la maggior parte delle volte, viene fatta dalla signora Blake.

I suoi primi lavori sono probabilmente i più conosciuti. Includono:

Gli “Schizzi poetici” (“Poetical Sketces”) scritti in età adolescenziale, nei quali rigetta i canoni estetici del suo tempo e mostra di rifarsi a Milton, in particolare alla sua opera il “Paradiso Perduto” e alla Bibbia (interpretata in senso Swedenborghiano), poiché presentano una visione globale del mondo.

I “Canti dell’Innocenza” (1789) hanno a che fare con l’infanzia, e così verranno considerati libri per bambini. L’infanzia assume il simbolo dell’innocenza, uno stato dell’anima connesso con la felicità, l’immaginazione e la libertà. Queste poesie sono scritte in un linguaggio semplice, musicale e ricco di simboli presi dalla Bibbia e dal Vangelo.

I “Canti dell’esperienza” vengono pubblicati nel 1794. In essi emerge una visione pessimistica della vita. Ognuna di queste poesie ha un corrispettivo nei “Canti dell’innocenza”, così che possano commentarsi l’una con l’altra. L’esperienza identificata con la vita adulta coesiste con la completa innocenza, portando nella realtà due differenti punti di vista.

“Il matrimonio del cielo e della terra” (1790) è un’opera composta di prosa, poesia, aforismi e dai famosi proverbi infernali. Questi proverbi attaccano la repressione dall’energia umana prodotta dai dogmi e dalla moralità. Qui l’inferno e Satana rappresentano la libertà, mentre Dio è malvagio e tiranno e vuole schiacciare, tramite la Ragione, il desiderio e l’energia.

I lavori politici di Blake, tramite l’uso di una complessa mitologia, mostrano il suo odio per la tirannide e lo sforzo che deve compiere l’intelletto per liberarsi dall’errore e fare ogni cosa nuova e migliore. In “La rivoluzione francese” (1791) e “America” (1793) il poeta spera in una svolta positiva per rovesciare tutte le forme di governo; in particolare, Blake è interessato alla sorte dell’Inghilterra, scossa dalle ondate rivoluzionarie. In queste opere egli mostra come l’errore politico risiede nei re, nei vescovo e nei latifondisti aristocratici. Questo errore è ancora meglio messo in evidenza in “La visione della figlia di Albione” (1793) dove sono condannate le forze spirituali che ingannano l’uomo e lo portano a compiere guerre e vendette.

Il secondo gruppo di lavori mostra l’elaborazione di un personale ed oscuro mondo mitologico:

“Il libro di Utrizen” (1794) è un tentativo di spiegare la concezione popolare di Dio mostrando come in realtà viene adorato, da un popolo ingannato e indebolito, un Essere maligno e non una vera Divina Provvidenza.

“Europa: una profezia” (1794) viene mostrato come Enitharmon, ovvero l’anima piena di dolce piacere, venga corrotta dalla Religione e sprofondi in un lungo sonno pieno di ipocrisia e di inganni dovuti ai cinque sensi e leggi morali.

“La canzone di Los” (1795): qui rappresenta l’asservimento morale e intellettuale dell’uomo tramite Los e Enitharmon che raffigurano rispettivamente il tempo e lo spazio e daranno vita ad Orc che rappresenta per l’umanità la possibilità di salvezza e di rivolta.

Il terzo gruppo presenta una concezione più matura della sua mitologia, e sono i cosiddetti “libri profetici”:

- il nucleo del mito dei “I quattro Zoa” (1797) è la perdita dell’unità originale dell’Essere Eterno a causa della natura dei quattro esseri che si trovano all’interno dell’Uomo e che lottano per avere il predominio l’uno sull’altro.

- Tramite il personaggio presente nel poema “Milton” (1804) Blake designa i caratteri del profeta, del visionario, del poeta ispirato. In questo mito Urizen cerca di recuperare il potere supremo, ma cade e stabilisce il suo dominio sulla terra, sopra tutti gli uomini, mediante la falsità della religione e verrà vinto da Gesù.

- “Jerusalem” (1804), l’ultimo libro profetico, è l’Emanazione di Albione che rappresenta la capacità visionaria, non tanto dell’uomo singolo quanto dell’umanità, cioè di Albione. A Gerusalemme non si avrà più la sensazione della divisione e della differenza tra gli esseri, ma tutto appare unito grazie allo spirito profetico.

Non bisogna però dimenticare tutte le illustrazioni prodotte con la tecnica della “pittura a fresco” e ispirate al “Canterbury tales” di Chaucer, al “The grave” di Blair, al libro di Giobbe e quelle per “L’inferno” di Dante.

Blake non appartiene epocalmente al secolo illuminato della teoria della ragione, ma si trova a contrapporre alla filosofia, che chiama “dei cinque sensi”, legata alla tradizione di Newton e Locke (che critica ferocemente), la forza immaginativa. Probabilmente le radici di Blake sono nella tradizione (neoplatonica, gnostica, biblica), più di quanto i suoi “allievi” (il gruppo di giovani pittori conosciuti come gli “Antichi di Shoreham) ammettano. Possiamo definirlo, a ragione, critico dell’illuminismo e precorritore del romanticismo.

Blake anticipa i grandi poeti romantici, sia nei temi sia nella modalità di espressione; i suoi poemi hanno una struttura molto semplice e sono ricchi di simboli.

Risulta anche molto complesso inserire la sua teoria estetica, così particolare e unica, nel dibattito dei suoi contemporanei. Addison e Gerard , come scrive Elio Franzini nel suo “l’estetica del settecento”, sembrano aprire la strada alla mistica di Blake11. Le loro teorie vengono contrapposte a quella di Hume il quale, nello stesso anno della nascita di Blake, pubblica il suo saggio dedicato alle “regole del gusto” dove sostiene che: “La bellezza non è una qualità delle cose stesse; essa esiste soltanto nella mente che la contempla, e ogni mente percepisce una diversa bellezza”12. Il bello non è accessibile a tutti gli uomini, bisogna avere particolari predisposizioni naturali che si affinano con l’esperienza e sono regolate dal gusto.

La regola del gusto non è un principio a priori, ma è intersoggettiva e fondativa per un senso comune che appartiene alla comunità sociale.

Addison e Gerard si propongono invece di trovare una regola radicata nella stessa natura umana; essa non viene affinata nel tempo ma è uguale in tutti i popoli, epoche e angoli della terra. Questa regola naturale è quindi invariabile e perfetta.

Il bello è perciò immutabile e eterno e ogni uomo riesce a percepirlo; tutti possono entrare in comunicazione con l’eterna bellezza.

Per Addison il gusto è quella facoltà innata dell’anima che distingue la bellezza di un’opera con piacere e i difetti con fastidio.

Blake, a questa teoria, che vede la bellezza accessibile a tutti e immutabile, aggiunge qualcosa in più per contemplarla in tutto il suo splendore, ovvero il ruolo fondamentale dell’immaginazione.


Capitolo primo

1.1 Le influenze neoplatoniche

Ridurre le influenze principali di Blake al neoplatonismo è troppo semplicistico, esse devono essere ricercate anche nel Cristianesimo, nella cabala, dalla quale molto probabilmente ha preso l’idea delle parole-simbolo dotate di un potere mistico, e nelle fonti gnostiche. Per questo motivo si può affermare che crea una propria visione del mondo che è difficile inquadrare in un movimento preciso e il suo misticismo antiumanistico, sebbene caratterizzi in gran parte tutte queste correnti, risulta tutto particolare.

Nella filosofia Neoplatonica vi sono tre livelli dell’essere che si irradiano da Dio: le ipostasi. La prima è Dio stesso, da cui scaturisce il Tutto, che man mano si allontana dal centro, diventa sempre più imperfetto. La seconda è lo Spirito del mondo (definito anche Intelletto o Intelligenza), e la terza è l’anima individuale la quale ha due nature, una rivolta verso la luce, verso l’alto, mentre l’altra rivolta verso il buio, immagine simbolica del corpo che è limitazione all’aspirazione infinita verso il mondo superiore, poiché ci distoglie dalle aspirazioni sublimi, lasciandoci ancorati all’amore per il mondo terreno tramite le pulsioni e i desideri. Il mondo corporale, rappresentato dalle tenebre, è un non essere poiché la materia è imperfetta e malvagia e vivere secondo i suoi impulsi è l’unica morte per l’anima.

Invece, per Blake, non esiste una distinzione metafisica dualistica, ma il corpo sprigiona energia e solo quest’ultima è vita, l’eterno piacere, tanto da sostenere che “Tutte le Bibbie, codici Sacri, sono stati causati dai seguenti errori:/

1. Che nell’uomo ci sono due principi reali di esistenza, cioè un corpo e una anima./ 2. Che l’Energia chiamata Male, procede solo dal corpo; che la Ragione, chiamata bene, procede solo dall’Anima./

3. Che Dio in Eterno torturerà l’uomo avendo egli seguito le proprie Energie.”1

Quindi la materia per Blake, sebbene sia una limitazione all’immaginazione, non risulta essere una prigione per lo spirito, che anzi ne è una parte percepibile attraverso i cinque sensi, e dopo la morte riacquista, con la resurrezione, la sua forma divina.: “If the doors of the percetion were cleansed, everything would appear to man as it is, infinite. For man has closed himself up, till he sees all things thro’ narrow chinks of his cavern”2.

Come sostiene la Raine3, il corpo può essere associato al noto mito della caverna di Platone: nel caso di Blake, quest’ultima viene rischiarata dalle finestre dei cinque sensi, secondo un motivo ripreso in modo più approfondito nell’introduzione del poema “Europa: una profezia”:

“Cinque finestre illuminano l’uomo nella caverna:/respira l’aria da una;/da una ode la musica delle sfere/da una l’eterna vite fiorisce, perché né possa goderne i grappoli/può da una guardare e vede piccole porzioni del mondo eterno in incessante crescita,/da una può evadere quando le piaccia, ma non vuole”4

1.2 Influenze gnostiche

La teosofia di Blake, simile a quella gnostica, si basa sulla visione della verità divina, che si può raggiungere tramite l’immaginazione, e sulla possibilità di entrare in contatto con la vera luce di Dio, che offre l’unica conoscenza certa. Si pensi al Vangelo di Giovanni, unico tra i quattro Canonici che presenta una dottrina gnostica, dove Gesù risulta essere l’incarnazione della Verità che permette di giungere alla vera Luce: “Io sono la luce del mondo; chi segue me (…) avrà la luce della vita” (GV vv 8;12).

Nella tradizione gnostica vi è una forte concezione dualistica tra bene e male, in perenne contrasto; il mondo e l’essere umano sono generati da questa tensione etica.

Secondo Givone, uno degli elementi che è ripreso da Blake da questa tradizione, è l’immagine del Figlio dell’uomo come eterno corpo dell’immaginazione: “Come la gnosi è non tanto un’operazione del pensiero, ma piuttosto lo stesso pensiero nella sua totalità dispiegata, così la visione o l’immaginazione di cui parla Blake, è non già l’atto di una facoltà umana (…) quanto l’esistenza in se stessa”5. Gesù è la “divina visione” e in essa l’Uomo Eterno si rivela. Tramite questa, il poeta riesce a vedere che, prima della “caduta”, l’essere eterno è androgino e in esso tutti i contrari sono conciliati.

“L’Immagine divina è l’asse su cui sono imperniati i Canti dell’Innocenza”, così scrive Thompson6 per sottolineare, tramite un sillogismo dettato dalla lettura della poesia “La divina immagine”, che l’uomo retto Blakeniano raffigura in terra l’immagine di Cristo, e quest’ultimo, per la dottrina Swedenborghiana, è Dio stesso.

“(…)Grazia, Amore, Pace, e Pietà/è Iddio, Padre caro,/Grazia, Amore, Pace e Pietà/è l’uomo suo figliolo e suo pensiero./La Grazia ha il cuore d’uomo/Pietà ha dell’uomo il volto/Amore umana forma divina/e Pace ha vestiti d’uomo(…)/Da tutti amata sia l’umana forma,/in Turchia si mostri o in Ebrei;/Dove trovi Pietà, l’Amore e Grazia, Iddio sta di casa”7.

In questa poesia, come in tutto il pensiero religioso di Blake, vi è un’eco del Cristianesimo Roussoniano, ovvero la Religione dell’uomo, in opposizione a quella civile (fissata dai capi di Stato e descritta nell’ultimo capitolo del “Contratto sociale”8). La prima, fissata nel libro IV dell’“Emilio” (“La Confessione di fede del vicario Savoiardo”), è intima, priva di intermediari e con pochi semplici dogmi. Rosseau, tramite il vicario9, ricorda ciò che Gesù risponde alla Samaritana incontrata al pozzo (GV. vv 4;23-25 ): “Dio vuole essere amato in Spirito e Verità, perché il padre cerca tali adoratori. Il Padre è Spirito e quelli che lo adorano devono adorarlo in questo modo”.

È chiaro che in molti punti i due pensatori si differenziano nettamente. Infatti per Blake la vera rivelazione si ottiene tramite l’immaginazione, mentre per Rosseau tramite la ragione unita al sentimento.

In Cristo, Dio dimostra chiaramente che non è una remota potenza, non è solo il giudice dei nostri comportamenti, fautore della nostra vita e morte, ma un Essere preparato a salvarci, poiché si è incarnato in uno di noi, e la sua esistenza è sentita nel presente. L’Innocente non pensa alla vita dopo la morte, vede il Paradiso come un luogo dove poter continuare ad unirsi con l’energia della vita, non come un premio per chi ha condotto una vita giusta.

Il Figlio dell’uomo è quindi colui che dischiude il finito all’infinito spezzando il guscio del mondo. Quest’ultimo è l’illusoria visione che nasce dai sensi raffigurato in “Milton” come l’ombra del mondo ideale: “(…)un’immensa /temperata ombra di tutte le cose sopra questa terra vegetale” (16;21-22)

Già negli ultimi anni del Rinascimento Giordano Bruno espone una variante storico-naturalistica antagonista al Cristianesimo che può essere associata, per alcuni aspetti, al pensiero di Blake. Bruno ammette la possibilità di una duplice natura di Dio, ovvero sia “super omnia” sia “insita omnibus”10, tramite il principio cusaniano che Dio essendo infinito può essere contemporaneamente ogni cosa e il suo contrario tramite la coincidenza degli opposti dove il Principio Primo diviene sia il più grande in Assoluto che il più piccolo. Tutto questo rende vana la distinzione tra res cogitans e res extensa che ipotizzerà, un secolo dopo Bruno, Cartesio11.

1.3 Innocenza e Esperienza: riscattare l’umanità dalla Caduta

Ma anche per la dottrina gnostica come per la neoplatonica, vi è un solo modo per saggiare la Verità, ovvero proiettarsi completamente verso l’infinito, dimenticando la parte fisica. È tramite la frase presente nel “Matrimonio tra il cielo e l’inferno”, che Blake fissa la sua brillante diversità: “Senza contrari non c’è progresso. Attrazione e Ripulsa, Ragione e Energia, Amore e Odio sono necessari all’essere umano” e “Ciò che sta in alto è come ciò che sta in basso”.

Senza la simultanea presenza di Innocenza e Esperienza cesserebbe la vita.

Il concetto del matrimonio tra terreno e celeste è sicuramente alchemico e indica appunto l’originaria unità degli opposti; compito dell’alchimista è proprio quello di ricreare, tramite particolari procedimenti, la Grande Opera come era all’origine cioè unita, dove bene risulta essere male e male risulta essere bene poiché tutto coesisteva in un unico insieme.

Questi due principi coesistono nell’umanità, innocenza e esperienza sono necessarie per riscattare l’uomo dalla caduta, la quale è inevitabile per ritrovare l’unità primaria e vera con l’Essere Divino, e esprime il momento della meditazione umana sulla propria condizione.

Nella mitologia Blakeniana del poema “The Four Zoas”, gli esseri che partecipano al Concilio Armonico di Dio, sentono la necessità di esistere di vita autonoma e di “dividersi dall’indiviso (…), la caduta non è altro che un atto di egoità a partire dal quale l’infinito cessa di espandersi e si contrae nel finito, cioè nelle forme di spazio e tempo”12.

Albione, l’uomo eterno, stirpe del genere umano primigenio, soccombe alla volontà della sua natura rappresentata dagli Zoa (esseri presenti all’interno dell’uomo) e questa è una figura che probabilmente il poeta riprende da miti Druidi, considerando la cultura celtica come la progenitrice dell’umanità. Albione rappresenta l’unione di tutti gli esseri e la concezione di uno stretto rapporto del Mondo, del Tempo e dello Spazio con l’Eternità.

Egli cade dall’Unità divina e così diviene preda delle illusioni, dei sensi e delle false deduzioni che produce la mente razionale, mentre il resto degli Eterni lotta per ricongiungerlo ad essi (“e nei vagiti della nascita e nei rantoli della morte la sua voce/è udita per tutto l’universo. Dovunque un’erba cresce/o una foglia spunti, l’Eterno uomo si vede, si ode, si sente, /con tutte le sue pene, finché non riassuma la sua antica felicità”13)

I quattro Zoa, che rappresentano le quattro parti dell’uomo, cioè rispettivamente testa, lombi, cuore e gambe, sono in conflitto tra loro e cercano di dominare l’una sulle altre, e sono: Urizen che rappresenta l’intelletto, origine della morale repressiva, della religione e della filosofia non-visionaria, immagine sia dell’umanità caduta sia dell’umanità potente e le cui attività sono controllate dalla divina provvidenza; Orc o Luvah, l’emozione; Tharmas, la sensazione che lotta strenuamente con Urizen, è figura di dubbio e disperazione ed è sempre in cerca di Enion, la sua speranza e memoria e madre del tempo (Los) e spazio (Enitharmon). Los, maschile, e Enitharmos femminile, solitamente uniti nell’Essere eterno, quando si separano danno vita all’essere sessuale (è sempre per volontà femminile - “Fame Will”- che si crea la vita); Urthona, l’immaginazione (nome eterno di Los prima della caduta).

Ma quale siano realmente “le nature di tali viventi creature, il Padre Celeste solo sa: nessun individuo lo sa, ne può in tutta l’eternità saperlo.”(The Four Zoas,1,7-8).

In “Milton” viene raffigurata un’altra versione della caduta che ha inizio dalla discesa sulla terra; dalla terra di Beulah, luogo dell’Innocenza, creata dall’agnello di Dio, nel mondo di Generazione (che raffigura l’Esperienza), di Orc ancora bambino, simbolo di emancipazione morale e potere anarchico e l’unico che può rendere libero l’uomo. Questa è uno stato intellettuale al di là della morte, sopra i limiti del cielo, è la regione dell’immaginazione, ma non è, però, la visione perfetta che spetta solo ad Eden, luogo di energia creativa.

L’Eden Blakeniano non è lo stesso descritto nel libro della “Genesi”, dove avvenne il Peccato Originario di Eva, ma è l’ultima sfera prima dell’assoluto, dove tutti gli elementi costitutivi dell’universo vivono in perfetta armonia.

Beulah, oltre ad essere dimora delle muse ispiratrici di Blake (le Figlie di Beulah che non svelano direttamente la verità ultima, ma adempiono tuttavia ad una funzione spirituale), rappresenta anche l’unione sessuale che è armonia dello spirito dell’uomo, essendo la ricongiunzione dei contrari fautrice del bene spirituale.

L’uomo nello stato dell’Esperienza trascorre molto del suo tempo in grande tristezza, sperando di ottenere molto di più di quanto possiede, vedendo che c’è sempre una condizione migliore di quella in cui si trova, incapace di “baciare la gioia quando passa”14.

A differenza dei personaggi, uomini, donne e bambini scaturiti dalla energia immaginativa di Blake nei “Canti dell’Esperienza”, quelli dei “Canti dell’Innocenza” sembrano comprendere maggiormente perché le loro visioni non sono offuscate dalla ragione, dal pregiudizio e dai dogmi. Infatti, la mente dell’Innocente non vede problemi, non perché sia folle o ignorante, ma perché i sentimenti gli arrivano direttamente al cuore (“Ti vede la felicità di un fiore”)15.

La gioia, in questo stato, nasce dal sentirsi parte dell’universo, dove domina il sentimento di benevolenza, che rappresenta l’ordine naturale delle cose.

1.4 La riconquista dell’innocenza

Il passaggio dall’Innocenza all’Esperienza è raffigurato poeticamente nella poesia “A little Girl lost” dove le parole “Religione” e “Sessualità” sono associate; in questa poesia il Poeta prende il posto del narratore e implicitamente denuncia l’educazione rigida, condividendo con Rosseau l’idea che l’unica e sola giusta sia quella che risiede nel dispiegare l’immaginazione di ogni fanciullo, evitando di corrompere le sue naturali attitudini.

L’innocenza, infatti, non viene persa per un atto sessuale consumato, ma tramite la descrizione, che il padre fa alla ragazzina, degli incontri amorosi facendole crescere nell’animo un innaturale senso di colpa. Così Blake presenta lo stato di smarrimento in cui è caduta la fanciulla, nell’ultima strofa: “Pale and weak!/To thy Father speak (…).”

Il passaggio dall’Innocenza all’Esperienza non è necessario, non è una “crescita” naturale dell’uomo, vi sono persone e esseri che possono trascorrere la loro esistenza sempre nell’Innocenza, dove l’amore viene vissuto in piena libertà, privo di forme di egoismo e l’intera devozione è rivolta alla persona amata.

Quindi la sessualità si deve sublimare in una dimensione puramente immaginativa per non farla degenerare in egoismo.

Il senso di colpa e di frustrazione possono solo appartenere all’Esperienza e sono inevitabili in questo stato, e purché non si riesca ad entrare in contatto col mondo dell’innocenza, tramite visioni o immaginazione, è impossibile simulare un ritorno allo stato della felicità.

Come recuperare allora l’Innocenza, il ricongiungimento reale con Cristo?

Blake ipotizza che questo processo possa avvenire solo tramite l’Apocalisse, che non è la fine di tutto e l’inizio di una vita altra, ma un ritornare ciclico all’unione dei contrari tra di loro e al ricongiungimento finale di Cristo con Satana: “L’umanità risorgerà come totalità (…) poiché il principio è diventato la fine”16.

La poesia di Blake è piena di passione, di immaginazione, la stessa emozione della “gioia dei bambini”, lo stato di Innocenza in cui tutto è più chiaro, vicino al divino che convive e ci protegge dall’Esperienza, dal mondo in cui siamo costretti a vivere e in cui siamo caduti:

“È l’innocenza un vestito da inverno/ E ci copre, sopporteremo lo sferzante uragano della vita” 17.

1.5 Lo stato dell’innocenza

I bambini, come l’artista, mostrano una grande ammirazione per ogni singolo aspetto che vi è in natura, capendo che ogni cosa gioca un importante ruolo nel Tutto; nell’immaginazione poetica e nei disegni di Blake, vi è la volontà di mostrare porzioni perfette e minute del suo mondo visionario, più reale di quello vero attorno a lui, ed è forse questo l’aspetto che affascina maggiormente i suoi contemporanei, tanto quanto noi oggi. L’arte è quindi un’unità organica data da simmetrie viventi, priva di contraddizioni poiché nell’immagine possono esserci simboli diversi ma fissati, di volta in volta, in maniera univoca e diversamente dalla ambiguità della parola, nella quale vi può essere affermazione e negazione.

Charles Lamb scrive nel 1824 in una lettera a Barton le sue impressioni sulle opere di Blake: “Egli dipinge strane forme (…), visioni del suo cervello, che dichiara di aver visto”18.

In una lettera del 6 giugno 1803 a Thomas Butts è lo stesso Blake a scrivere: “I Know myself both Poet and Painter”.

Il disegno è, nella concezione dell’arte di Blake, importantissimo, insieme alla parola, per giungere alla Verità, in quanto il contorno definisce la forma vivente, la cosa che vediamo, in un’unità coerente e integra e tracciare una linea è il primo passo per incorporare l’energia immaginativa, unione eterna tra tempo e spazio, su un mondo caduto (“….eliminate la linea e lascerete fuori la vita stessa”). L’out-line (contorno) fa “saltare all’occhio il confine, più di una tecnica assume il valore di una poetica”19 poiché l’occhio non guarda, ma legge la figura inseguendo questa linea che incide lo spazio e ne fa vedere il limite: eliminare la linea significa eliminare la vita stessa e tutto sfocia nel caos.

La padronanza del contorno completa la vittoria della creazione sulla percezione, quest’ultima può suggerire solo oggetti minori alla conoscenza e quindi il poeta-pittore deve sviluppare la capacità di vedere con l’occhio della mente.

L’out-line, questo confine immaginativo non presente in natura, riesce a costruire il disegno decostruendo l’oggetto naturale e l’occhio legge la linea tracciata diventando attivo cioè non è più vittima di innumerevoli immagini senza confine, ma prende potere su ciò che è divenuto descrivibile sulla carta.

La vera bellezza si afferma quando la moltitudine viene risolta ad uno e risiede nell’eccesso, nell’esuberanza e forse per queste due caratteristiche, come sostiene la Raine, Blake risulta grandioso, non tanto per le sue capacità tecniche, ma per la sua grandiosa comunicabilità dell’incomunicabile20.

1.6 Blake e la figura umana

La figura umana disegnata, che ha una importanza estrema nell’intero lavoro di Blake, poiché tutto ciò che vi è nel suo mondo visionario viene antropomorfizzato e reso icona, sembra molto spesso una statua priva di profondità, appiattita, probabilmente perché essa fa scorgere in chi la osserva la percezione di uno spazio che è divenuto direttamente corpo, definendolo e racchiudendolo totalmente in quest’ultimo. Certamente, un altro motivo del suo stile “statuario”, nasce in Blake fin da quando è bambino e si trova a copiare modelli in gesso come il Gladiatore, l’Ercole Farnese e la Venere de’Medici regalategli dal padre; inizia così ad odiare il disegno dal vivo che invece era d’uso nelle accademie del suo tempo, poiché era fermamente convinto che ricopiare modelli reali affievolisse la sua immaginazione. Non c’è dubbio che la linearità, l’allungamento, la dolcezza e l’austerità delle statue gotiche, da lui sempre amate, abbiano influenzato il suo concetto estetico della figura umana, spingendolo a rifiutare i contrasti di colore troppo forti, il chiaro-scuro per uno stile tutto dedito alla chiarezza e semplicità delle forme. Per questo motivo critica fortemente Rubens e Tiziano, ma probabilmente, più di questi due pittori, ciò che scatena il suo rifiuto sono i loro ammiratori accademici, che dice fautori di un’arte che perde i contorni, prediligendo Michelangelo e Raffaello. È probabilmente nelle tavole per “Gerusalemme” che perfeziona le forme umane seguendo una linearità Michelangiolesca: in “Albione in adorazione di Cristo” troviamo una grande consapevolezza e semplicità nel raffigurare il corpo nudo.

Da sempre l’interesse grafico di Blake risiede in tutto ciò che riguarda i caratteri fisiognomici dell’uomo. Si può notare l’enorme attenzione prestata dall’artista alla gestualità corporale e al pathos dei volti presenti nelle illustrazioni per il libro di Chaucher, “The Canterbury Tales” e nell’incisione per il Canto V dell’Inferno raffigurante “Paolo e Francesca”, dove il turbinio della tempesta mostra appunto volti e corpi sofferenti e straziati. Grande desolazione penetra nei nostri animi osservando il volto e la posa di “Terra” e di “Aria”, mentre un’immensa gioia si irradia dal volto del cherubino, che, quando è pronto a nascere, rompe l’uovo: i suoi occhi rivolti verso l’alto ricordano le immagini in estasi della pittura religiosa.

Blake riesce a vedere nei disegni di Michelangelo eroi gotici, associandoli allo stile delle statue delle chiese londinesi, ed è da questa, forse strana, unione che darà vita a tavole come “Fuoco” per “Le porte del Paradiso”, “Milton come stella che penetra nella gamba sinistra di Blake” e soprattutto la maggior parte delle illustrazioni per “L’Inferno” di Dante, come quella per il Canto XXIX (Virgilio e Dante sulla chiostra di Malebolge) e Canto XXXII (Dante urta col piede il viso di Bocca degli Abati).

Oltre all’arte gotica Blake si rifà, nella sua passione per la “divina forma umana”, anche a quella greca e lo stile dei suoi disegni, come scrivono Paola Colaiacomo e Stefania d’Ottavi21, è di una specie a sé, si sente ispirato, o meglio costretto, dal suo Genio o Angelo a rinnovare l’arte dei Greci.

Molti temi visivi sono reminiscenze di rilievi e sculture greche o romane, come sembra che la figura anziana, spesso piangente, di Urizen venga ripresa dal bassorilievo romano di Giove Pluvio.

Già nei “Canti dell’Innocenza” le figure umane sono libere dalla forza di gravità, riescono a volare senza bisogno di quelle gigantesche ali degli angeli vittoriani e queste caratteristiche di libertà dai vincoli naturali saranno riprese e ampliate nel “Libro di Thel”. In questa opera l’anima ha un compito da svolgere nel mondo della Procreazione, riportare le leggi dell’umanità a quelle dello spirito e in essa Blake critica aspramente la crudeltà della morale e della repressione sessuale ritenendo che le regole che bisogna osservare siano innate. Questa condanna verrà poi ampliata, tramite la figura, nel frontespizio della “Figlia di Albione”, del crudele Dio padre raffigurato da Urizen che avanza con le braccia aperte e una lunga barba bianca, con i lineamenti dell’infelice, cieco padrone tiranno già presente nei “Canti dell’Esperienza” con l’epiteto di Dio geloso.

Diverso, e sicuramente più lugubre e drammatico, è lo stile dei “Canti dell’Esperienza”, il cui frontespizio mostra i morti supini nello stile delle tombe reali e le figure sono impacciate, gravate, svogliate. Nel “Matrimonio del cielo e dell’inferno” tutta l’attenzione e simpatia di Blake vanno all’energia (che viene rispecchiata nei forti colori) e egli mostra come “le tigri dell’ira sono più sagge dei cavalieri dell’istruzione”.

Tutte le sue incisioni hanno l’energia e l’invenzione della grande arte e come annota nel 1824 Samuel Palmer: “Mi sedetti davanti alle sue xilografie (…) mi accadde da prima di pensare al sentimento che esprimevano. Sono visioni di piccole valli, cantucci e angoli del Paradiso: modelli del grado più squisito di intensa poesia. Pensai alla loro luce e ombra, e osservandole non trovai modo per descriverle. C’è in tutte un tale scintillio mistico (…) come se ingentilisse l’animo”22.


Capitolo secondo

2.1 Le figlie di Beulah contro l’arte come mimesi

“Tra di loro si sposano i figli e le figlie di Beulah,/ poiché tutti sono uomini in Eternità, Fiumi, Monti, Città e Villaggi./ Tutti uomini sono, e quando entri nel loro Petto vai passeggiando/ in Cieli e Terre, a quale mondo che nel tuo proprio Petto/ porti il tuo Cielo e Terra; e tutto ciò che scorgi, benché ti appaia/ fuori, è dentro/ nella tua Immaginazione, della quale non è altro questo Mondo di Mortalità che ombra.”1

È l’immaginazione per Blake la vera fautrice di poesia e di arte; le sue muse ispiratrici, quelle che invoca in aiuto, sono le figlie di Beulah e esse, come si era già accennato nel capitolo precedente, indicano la natura puramente spirituale, sebbene non giungano a rivelare direttamente la verità ultima, della Realtà e si battono contro una morale dogmatica che inibisce e mortifica le attività del corpo, proteggendoci dal dubbio; grazie alle sue “nuove e particolari” muse, diverse da quelle dell’arte classica, che sono “Figlie della Memoria, di Mnemosyne”, egli si stacca dalla concezione dell’arte come imitazione e produce una mitologia diversa da quella precedente.

La concezione dell’arte come mimesi, ovvero come imitazione degli aspetti dell’universo, è probabilmente la teoria estetica più antica e trova la sua prima stesura nei dialoghi di Platone (428-347 a.c.): la pittura, la poesia, la musica, la danza e la scultura, dice Socrate nella Repubblica, sono tutte imitazioni.

Nella dottrina Platonica, l’arte è imitazione di imitazione poiché tre sono i livelli di riferimento; “la prima è quella delle idee eterne e fisse, la seconda, che riflette le idee, è il mondo dei sensi, e la terza, che riflette la seconda, comprende quelle cose come ombre, immagini, in acqua o specchi, e infine l’arte”2 che è di due gradi lontana dal vero.

“Ci sono tre specie di letti: quello naturale, che a mio parere potremmo considerare opera di un dio (…), la seconda specie è opera dell’artigiano (…) e la terza è opera di un artista.(…) Pittore, artigiano e dio: ecco i tre creatori delle tre specie di letti. (…) il dio, sia che non volesse sia che per necessità non potesse fare in natura più di un letto, realizzò il letto secondo l’essenza (…). Perciò l’imitazione è lontana dal vero. (…) Il poeta colora in parole o frasi ogni arte senza saper fare nient’altro che imitare.”3

La critica mossa da Platone, dal punto di vista metafisico-gnoseologico, è che la poesia possiede il più basso grado di conoscenza ed è totalmente aliena dalla misurazione matematica, che invece risulta essere il primo gradino che l’uomo compie per uscire dal “dedalo” delle percezioni soggettive ed accedere ad una verità comune.

In quanto riflesso di un riflesso, che imita il mondo ma non la sua essenza, l’arte occupa un bassissimo posto nell’esistenza delle cose in quanto il suo effetto su chi ne fruisce è nocivo per la ricerca del Vero e del Bello; per questo motivo deve essere messa al bando dalla educazione dei filosofi: “ (…) rifiutiamo tutto ciò che si fonda sulla imitazione”4.

Sebbene anche Aristotele (384-347 a.c.), come Platone, abbia la stessa visione dell’arte come imitazione, il suo atteggiamento, come emerge dalla “Poetica” è molto differente dai dialoghi platonici. Nel trattato sulla “Poetica”, oltre ad essere presentate una rassegna dei mezzi e modi per fare arte, viene evidenziata la relazione del lavoro artistico, o meglio delle attività artistiche di imitazione, dei comportamenti, gesti e attitudini umane, con l’effetto che esso ha sul mondo esterno, che è il vero fine dell’artista, rendendo in qualche modo l’animo migliore tramite la pietà e il terrore che producono la catarsi; con il termine citato, in Grecia, si intendeva la purificazione rituale e in Aristotele viene usato come fenomeno connesso all’arte, come quello stato di rasserenamento e liberazione dagli impulsi che l’uomo subisce ad opera della poesia, e in particolare del dramma e della musica.

Nella “Poetica” viene messo in evidenza come il bisogno di produrre arte sia insito nel genere umano: “Due cause appaiono aver dato vita all’arte poetica, entrambe naturali: da una parte, il fatto che l’imitare è connaturato agli uomini fin dalla puerizia (e da ciò gli uomini si distinguono dagli altri animali, nell’essere portati ad imitare e nel procurarsi per mezzo delle imitazioni le nozioni fondamentali), dall’altra il fatto che tutti traggono piacere dalle imitazioni”5.

In entrambi i filosofi greci i poeti e gli artisti non hanno un ruolo fondamentale, sono solo dei medium artificiali e essi si limitano a rappresentare, in diverse forme artistiche, ciò che accade o è in natura. Quello che veramente importa è l’effetto che le opere hanno sul pubblico e ai due filosofi poco interessa ricercare i sentimenti e le emozioni di chi ha creato l’opera.

Il poeta in Aristotele è chiamato solo a svolgere la funzione di scelta dell’intreccio e del linguaggio da usare nella tragedia. “Nella tragedia non si deve cercare un piacere qualsiasi, ma quello suo proprio. Poiché il poeta deve produrre il piacere che si dà grazie all’imitazione da pietà e paura, è chiaro che ciò deve essere realizzato nei fatti”6.

L’analisi che svolge Platone sui poeti e pittori è pedagogico-politico e non artistica, quando gli artisti creano un’opera, copiando un oggetto presente in natura, l’idea vera di quest’ultimo viene persa e corrotta tramite l’inganno. L’arte, sia psicologicamente sia moralmente, e in particolar modo la commedia corrompe gli animi. Il re-filosofo della Repubblica non deve lasciarsi coinvolgere dalle emozioni: dovrebbe avere sempre in mente un tipo superiore di uomo distaccato dal mondo materiale impegnato solo nella ricerca della vera conoscenza. L’arte quindi risulta estremamente dannosa in quanto incatena l’uomo alle passioni rappresentate, e raffigura persone che si abbandonano senza ritegno a bassi istinti.

2.2 La memoria, l’immaginazione e l’arte

In tutto il diciottesimo secolo il ruolo della memoria, come fonte per produrre opere, continua ad avere un ruolo fondamentale e anche quando, nella metà dello stesso secolo appare la figura del genio, quest’ultimo ha l’arduo compito, come scrive Bloom7, di scoprire centinaia di nuovi fenomeni naturali.

Nel 1747 Batteux scrive “Le Belle arti ricondotte ad un unico principio” nel quale sottolinea che le arti sono unite dal principio di imitazione, ma non della realtà qualsiasi, ma della bella natura. Egli è il primo ad unificare i termini Arte e Bello, che oggi noi consideriamo naturalmente intrecciati, ma che, nell’antichità, non erano convergenti e a distinguere nettamente le Belle Arti dalla Scienza e dall’artigianato.

Lo stesso principio della pittura e poesia come imitazione è ripreso da Lessing, sebbene, già dal diciassettesimo secolo grazie al contributo di Hobbes e di Locke, si inizia a prestare più attenzione alla mente creatrice del poeta, alla abilità individuale del genio e al ruolo che ha la sua facoltà dell’immaginazione nell’atto della composizione.

Anche la storia del concetto di immaginazione (facoltà di rappresentarsi cose non date attualmente alle sensazioni, ovvero la possibilità di evocare o produrre immagini indipendentemente dalla presenza dell’oggetto reale di riferimento) risulta avere un ruolo fondamentale nella critica estetica, anche se per un ampio periodo di tempo rimane ancorato al concetto di memoria e imitazione.

Il primo a sottoporla ad analisi fu Aristotele nel “De Anima”, e sebbene già Platone la concepisse come facoltà indipendente e autonoma dalla sensibilità, egli la distingue da quest’ultima e dall’opinione. Per Aristotele, l’immaginazione è quindi un mutamento generato dalla sensazione e simile ad essa, per quanto però non vi sia realmente legato; questo concetto rimarrà invariato per molto tempo sebbene si aggiungano nuove sfumature: nell’umanesimo, secondo Marsilio Ficino e Giordano Bruno, l’immaginazione, unita alla mnemonica, serve per evocare affinità profonde tra le idee. Francesco Bacone, nel 1623, accosta l’immaginazione alla memoria e alla ragione, come una delle facoltà fondamentali legate alla poesia. Hobbes la riconduce alla memoria e all’esperienza tramite l’intelletto e il giudizio; questa concezione domina sia il razionalismo che le poetiche del sei-settecento inglese dove l’immaginazione, fortemente connessa alla memoria, è comunque slegata da ogni rapporto con la conoscenza razionale e scientifica. Hume arriva a sostenere che la differenza tra immaginazione e memoria risiede nella superiorità di quest’ultima, rispetto alla prima, per la vividità dell’immagine che ci viene presentata nella mente.

Kant vede nell’immaginazione la facoltà delle intuizioni, anche senza la presenza dell’oggetto, e la distingue in produttiva, come la facoltà delle intuizioni pure (spazio e tempo) e riproduttiva, questa non è mai creatrice in quanto raffigura oggetti già intuiti e desume sempre dalla realtà, tramite i sensi, la sua materia8.

L’idealismo accentua il carattere della funzione cognitiva dell’immaginazione: per Fichte l’immaginazione produce la realtà, che però non è presente in essa, ma diviene reale solo dopo che è stata concepita e compresa nell’intelletto. Questa funzione creativa dell’immaginazione diviene un luogo comune nel romanticismo. In Schelling assume, insieme all’arte, l’arduo compito di unire il reale e l’ideale. In Schlegel essa riassume in sé tutta l’attività produttiva dell’uomo.

Hegel enuncia la distinzione tra fantasia e immaginazione dicendo che entrambe sono determinazioni dell’intelligenza, ma la seconda è esclusivamente riproduttiva, mentre la prima è creatrice9.

2.3 Wordsworth, Coleridge e Shelley

Il nesso memoria-immaginazione, soprattutto nella visione Humeiana, viene quindi rigettato da Blake; l’immaginazione non necessita più di modelli reali a cui si vuole rimanere fedeli nel creare, ma va ben oltre questo mondo.

Da questo motivo ecco spiegata la nota scritta a margine nella sua copia dei “Poems” di Wordsworth dove sottolinea: “L’immaginazione non ha nulla a che vedere con la Memoria”10.

Wordsworth nella prefazione alla seconda edizione delle sue “Lyrical Ballads”, pubblicate insieme a Coleridge, che viene definita come una sorta di manifesto del romanticismo inglese, sottolinea quale dovrebbe essere il soggetto della poesia e il linguaggio da utilizzare. La poesia dovrebbe avere a che fare con le situazioni di ogni giorno, con persone semplici e per questo le parole adottate dovrebbero essere capibili da tutti; già da queste regole iniziali si può vedere quanto i miti “epici e profetici” Blakeniani siano distanti dalla concezione di Wordsworth.

Per Blake, il poeta ha una posizione privilegiata rispetto agli altri individui, grazie alle capacità di avere visioni particolari, mentre per Wordsworth l’artista è un uomo tra gli uomini, il quale ha, rispetto agli altri, solamente più sensibilità e maggiore abilità nel penetrare nel cuore delle cose. Il lavoro dell’artista è qualcosa di squisitamente intimo dato dagli impulsi dei sentimenti: l’atto creatore della mente dell’artista, non è più dato, come voleva Aristotele, dal riproporre azioni e qualità umane al fine di produrre “buoni sentimenti” sul fruitore.

Per lo scrittore delle “Lyrical Ballads” l’uomo e la natura sono inseparabili, in quanto quest’ultima è lo spirito dell’universo e mondo della percezione sensoriale il quale ci permette di vedere e ascoltare tutta la vera bellezza presente nell’ordine delle cose.

Blake critica aspramente il ruolo centrale che concede Wordsworth alla memoria nel comporre poesia, la quale può essere solo creata in tranquillità, facendo straripare la forza dei sentimenti che vengono presi in origine dalle emozioni e ricollegati organicamente tra di loro. Questo atteggiamento è descritto nell’ultima strofa della poesia del 1804 “Daffodils”: “For oft, when on my couch I lie/ in vacant or in pensile mood,/ they flash upon that inward eye/ which is the bliss of solitude; /then my heart with pleasure fills,/ and dance with the daffodiels”. Nulla di tutto ciò si trova nello stile di Blake, dove egli stesso annuncia di essere condotto, nello scrivere, dal suo Genio Poetico o Spirito di Profezia. Quest’ultimo è il suo simbolo per la conoscenza visionaria la quale è data dall’immaginazione, ovvero la percezione soprasensoriale, che mostra la falsità della testimonianza dei sensi e il rifiuto di ogni filosofia empiristica. Il mondo fenomenico non ha di per se validità per giungere alla verità poiché il “Genio Poetico fu il vero principio”11.

La teoria estetica Blakeniana dell’immaginazione, “no men of sense can think that an Imitetion of the objects in nature is the art of painting. Like poetry and music, painting must be elevated from facsimile representation of merely moral and perishing substance into is own proper sphere of invention and visionary conception.”12, come sostiene Abrams in “The mirrow and the lamp”13, può essere vista come una “distante” e “deviata” produzione dell’idea e del cosmo Platonico in quanto, da un lato, come per il filosofo, tutto ciò che è presente in questo mondo non rappresenta la sua vera essenza e dall’altro, diversamente, l’arte ha il compito di mostrarci la vera essenza dell’universo.

A favore di ciò sono altri due poeti romantici inglesi: Coleridge e Shelley per i quali l’artista non deve copiare la “natura naturata” ma l’essenza che è nelle cose.

Coleridge, forse più vicino a Blake che non a Wordsworth, sebbene avesse una profonda amicizia col secondo, distingue tra una immaginazione di primo livello, ovvero la capacità degli individui di produrre immagini, e una di secondo livello, che è quella del poeta, che costruisce nuovi mondi. È proprio quest’ultima che lo distingue da Wordsworth, in quanto per il poeta della “Ballata del vecchio marinaio” lo scopo del poeta è di scrivere eventi straordinari, dalle atmosfere soprannaturali e dal clima onirico, in un modo credibile. La natura non assume più il ruolo di guida, di fonte consolatoria e di felicità, poiché la sua forte fede Cristiana non lo porta mai ad associarla con il divino, nella forma di panteismo adottato invece dallo scrittore dei “Lucy Poems”.

Meno disciplinato e metodico rispetto ai due grandi poeti che hanno resa grandiosa la storia del Romanticismo inglese, tutte le opere di Shelley mostrano la sua grande irrequietudine, il suo rifiuto delle convenzioni sociali; egli crede fortemente nel principio di Libertà e Amore, che vede essere l’unico rimedio contro il male che risiede nelle istituzioni; compito del “profeta” e “titano” poeta isolato, è proprio quello di fare raggiungere agli altri uomini un mondo migliore dove dominino questi due principi.

Per Shelley la poesia è qualcosa di divino, è il centro e la circonferenza di tutte le scienze e, come per Blake, è qualcosa che va oltre la ragione, non può essere determinato dalla volontà. È la poesia che rende immortale tutto ciò che di più bello c’è in natura, è la Ierofante di una ispirazione riservata a pochi: è la legislatrice non compresa del mondo.

2.4 Blake e il testo biblico

Secondo Bloom, il poetare di Wordsworth è molto più innovativo rispetto a quello di Blake: “Dispite his surface innovation, Blake is closed to Spencer and Milton than he is to Wordsworth, and far closed than Wordsworth is to Spencer and Milton. Wordsworth imposed himself upon the canon (…)”14 ; Bloom arriva a questa conclusione prendendo in esame due “Canti dell’Esperienza”: “London” e “The Tyger”.

Egli sostiene che “London” sia una revisione/negazione, in quanto ribaltamento del significato, del capitolo nono del libro profetico di “Ezechiele”15 e “The Tyger” si rifaccia al libro di “Giobbe” e al “Paradiso perduto” di Milton.

In “London” Blake, come Ezechiele, si definisce Profeta, e il suo destino, come quello di tutti i profeti e come è descritto nel Vecchio e Nuovo Testamento è quello di soffrire terribilmente, non essere accettato in patria e essere costretto a non trovare un luogo dove vivere in pace; la poesia si apre con “I wander throw each chartered street”. Blake è consapevole però di non avere la forza necessaria che deve avere un profeta biblico, “I’m not Ezekiel, I’m not a prophet, I’m too fearfull to be the prophet I ought to be, I’m hid.” E sa di non avere la forza di gridare con la faccia a terra: “Ah! Signore Dio, sterminerai tu quanto è rimasto di Israele, rovesciando il tuo furore sopra Gerusalemme?” (Ez, vv 9;8). Blake paragona Londra alla Gerusalemme corrotta di Ezechiele, dove “la terra è coperta di sangue, la città è piena di violenza” (Ez, vv 9;9) esattamente come in “London”: “Runs in blood down Palace walls”. La somiglianza tra il passo biblico e la poesia presa in analisi sta anche nel “marchio” stampato sulla fronte degli uomini salvati dalla vendetta divina, sebbene il profeta Blakeniano tracci quello della debolezza e del dolore, “segno demoniaco della scrittura”16.

In un certo qual modo, sebbene Blake si scagli contro la poetica della memoria in favore dell’immaginazione, poiché in quest’ultima il tempo si annulla, non giunge ad una indipendenza completa da tutta la tradizione letteraria, ma anzi, rimane in essa sconvolgendone però il significato.

Mentre il tempo è saldamente ancorato nella memoria, Blake sostiene che la poesia sia negazione della storia, del ricordo, ma rivalutazione del momento percepito con il vero occhio che ci permette di cogliere la realtà, ovvero quello della mente. Il vero artista si distingue in quanto tutta la sua immaginazione gli appare infinitamente più perfetta e più organizzata rispetto al mondo quotidiano.

La visione per Blake è estranea a qualsiasi canone filosofico poiché non si può definirla in termini razionali. Essa è ben altra cosa dalla favola o allegoria: è immaginativa, mentre le favole sono mnemoniche, poiché esse rispecchiano solo le forme cangevoli e apparenti della Natura, ma mai l’identità integra del reale.

L’allegoria e le favole si fondano su concetti ricordati, simboli convenzionali e valori accettati muovendosi in direzione contraria rispetto all’ispirazione.

La memoria è dannosa alla poesia in quanto ricordo passivo condizionato dall’esperienza temporale e “in termini Blakeniani abbandonarsi al procedimento riflessivo significa sollevare l’Uomo Naturale –ossia temporale- contro l’Uomo Spirituale –cioè eterno- (…) poiché mentre la memoria è associazione passiva, l’ispirazione è simultaneamente coscienza immediata e rappresentazione immaginativa di uno stato esistenziale libero da Tempo e Spazio”17.

Le immagini date da favole e fantasia sono simboli rappresentativi di questo mondo, di una arte che imita la natura basandosi sul processo associativo dei ricordi mente quelle date dall’immaginazione sono divine e sublimi.

2.5 Pan contro Apollo

Il suo scagliarsi fortemente contro la memoria e l’arte mimetica lo porta ad essere insofferente verso la figura ispiratrice della poesia Greca: Apollo diviene “Satana medesimo”18 in quanto simbolo dell’etica e della moderazione, freno della ragione naturale alle passioni, e oppone alle massime apollinee il suo proverbio infernale nel quale annuncia che “le strade dell’eccesso portano al palazzo della saggezza”19. Apollo non può essere il detentore, l’ispiratore della vera poesia, in quanto essa deve essere guidata dalla visione, che è immediata, improvvisa, non governabile, mentre il dio greco predica la ragionevolezza e l’esercizio dell’auto-restrizione.

Sappiamo però che il nume, tra i suoi vari doni, possiede anche il potere profetico, ma Blake è probabilmente a conoscenza, ed è per questo motivo che non gli concede la possibilità di giungere alla vera unica verità, di una leggenda secondo la quale Apollo non ebbe innata la capacità visionaria, ma la estorse con l’inganno e la violenza a chi la possedeva come dote personale ovvero Pan, il rozzo e selvaggio dio dei boschi.

La simpatia di Blake per Pan sta nel fatto che questo dio non faceva parte dei dodici numi dell’Olimpo, dai quali anzi veniva deriso, non sedeva insieme agli eletti, seguaci dell’ordine e della legge, ma apparteneva alla categoria dei ribelli e per questo è l’unico dio, nella mitologia pagana, del quale si sia ipotizzata la morte, elemento che certamente deve fortemente aver colpito Blake.

Blake non solo scaccia Apollo dal primato di ispiratore poetico che aveva nella cultura classica, ma ironizza anche, nella lirica “To the muses”, sulle figure che rappresentano allegoricamente quella tradizione, cioè le muse, figlie della memoria. In essa Blake polemizza appunto contro l’arte come imitazione della natura e sulla possibile sua funzione socio-politica: Whether on Ida’s shady brow,/ or the blue regions of the air,/ the chambers of the sun, that now/ from antient melody have ceas’d/ whether in Heav’n ye wander fair,/ or the grean corners of the earth,/ or the blue regions of air,/ where the melodious winds have birth;/ whether on chrystal rocks ye rove,/ beneath the bosom of the sea/ wand’ring in many a coral grove,/ Fair Nine, forsaking Poetry!.

Le muse risiedono nel mondo materiale nella poesia, come si può notare, sono presenti tutti e quattro gli elementi (terra, acqua, aria e fuoco, tramite la metonimia del sole) che evidenziano chiaramente la natura di esse, ben lontane dalla dimensione fuori dal tempo dell’immaginazione (dove al contrario sono presenti le “figlie di Beulha”).

2.6 L’arte deve essere libera

Altra accusa che muove Blake ai classici, e in particolar modo alla concezione estetica della filosofia Greca, è di aver fatto dell’arte un semplice mezzo di divulgazione ideologica, lasciandola contaminare dalle esigenze contingenti e materiali dello stato civile. Ad Atene e Roma si richiedeva prima di essere cittadini e poi poeti e si attribuiva un valore esagerato all’abilità tecnica, al fattore ornamentale e soprattutto cercava di mostrare, tramite le opere, la grandezza dello Stato. Bisogna ricordare che il termine greco, che più si avvicina alla concezione moderna di arte, è tèchne e in esso rientravano tutte quelle attività che richiedevano una abilità pratica. Per Blake tutto ciò significa “distruggere quel rapporto sostanziale fra autore e opera che si configura come espressione-storicizzante di un processo teso a ricostruire l’archetipa originaria Divina Forma Umana persa con la caduta nel materialismo”20.

L’artista per eccellenza, come sostiene Northon Frye21, è l’uomo che lotta per fare della sua percezione una creazione, della sua vista una visione: l’arte, non soggetta a regole, non prodotta per mera artificiosità, è una tecnica per realizzare, attraverso un ordinamento dell’esperienza sensibile da parte della mente, una realtà più alta di quella che possono darci l’esperienza lineare non selezionata o una rievocazione di seconda mano. Il mondo che ci concede la visione è un mondo di desideri appagati e di grandiosa libertà, in quanto noi vediamo ciò che vogliamo vedere, mentre in una città, dove venga bandita l’arte, anche ideale o utopica, e il riferimento è esplicito alla Repubblica di Platone, , l’anima umana viene resa schiava dalla ragione.

Solo il Vangelo del Cristo ha saputo opporsi agli ideali classici, recuperando il rapporto di fondo tra prodotto artistico e realizzazione personale; Blake, in una annotazione a Berkeley, filosofo irlandese della fine del milleseicento, arriva ad asserire che, mentre Cristo, indossando panni da uomo, portò vita e immortalità alla luce del sole, Platone copriva con la sua filosofia gli Occhi della Immaginazione22.

2.7 Blake e Berkeley

È probabile che il ruolo fondamentale che Blake dà alla facoltà visiva, lo riprenda dalla dottrina dello stesso Berkeley, secondo la quale gli oggetti del reale non hanno validità ontologica e la loro essenza dipende dall’essenzialità primaria del soggetto che li percepisce. Per questo filosofo l’uomo non è in grado di formare e possedere idee astratte, ma è in grado di averne solo di particolari. Se ci atteniamo solo all’esperienza immediata, ci rendiamo conto che ciò che possediamo sono solo le nostre percezioni, interne ed esterne, e le idee che nascono dalla loro combinazione; poiché la natura delle idee è passiva, esse non possono prodursi da sole, ma devono essere prodotte da un essere pensante attivo, uno spirito. Il “Trattato sui principi della conoscenza umana”, testo del 1710, è l’opera in cui il filosofo irlandese sviluppa appunto questa teoria dell’immaterialismo costruita sulla critica alle idee astratte di Locke e al dualismo di pensiero ed estensione di Cartesio.

La celebre frase Barkeleyana “esse est percipi” diviene l’aforisma Blakeniano “as the Eyes, such the Object”23.

L’esperienza mentale è una unione di soggetto percepente e di oggetto percepito e in

questa unione, dove il ruolo attivo è svolto dal primo, scompare la differenza tra interno ed esterno e l’opera d’arte è il prodotto di questa creatività. Essa non è totalmente evasione dal reale ma “esercizio sistematico per comprenderla. (…) L’arte vede le proprie immagini come forme vive e permanenti al di fuori del tempo e dello spazio. Questo è l’unico modo in cui possiamo rendere stabile il mondo dell’esperienza”24: l’arte è allusiva piuttosto che esplicita e dettata dall’ispirazione. Quest’ultima è divina in origine e costituisce una struttura permanente che Blake chiama Golgonooza ed è identificata con la città di Dio, la Nuova Gerusalemme, forma totale di ogni cultura e società. In essa viene conservato tutto il bene che l’uomo ha fatto e in essa il tempo si annulla totalmente; in essa lo spirito del Genio Poetico risiede aspettando che nel mondo materiale nasca un uomo-profeta, che possegga in potenza la sua essenza.

La figura archetipa del poeta viene chiamata da Blake Los e necessita delle seguenti caratteristiche: che egli, essendo oltre che poeta, profeta, abbia continue visioni; che il nome Los, “anagramma di Sol ( che in latino significa sole, luce), abbia una forte suggestività pittorica; e infine che Los ingloba il lessema lo, ossia guardare, per cui Los, l’archipoeta, è, preso alla lettera, colui che guarda verso l’infinito e l’eterno”25.

Los appare in “Milton” appunto come l’Eterno Profeta ma anche come simbolo del Tempo e egli risulta essere una manifestazione dello spirituale che si converte nella luce della conoscenza visionaria, rivelata alla fine dello stesso Tempo: “He is the Spirit of Prophecy, the ever apparent Elijah (…)/ Every one is a fallen Son of the Spirit of Prophecy” (Milton, 23. 71;75).


Capitolo terzo

3.1 La concezione estetica

Rintracciare la concezione estetica di Blake è un processo assai complesso, in quanto egli non fa riferimento ad una corrente di pensiero univoca, né tanto meno segue un unico sistema filosofico.

Quando facciamo riferimento all’estetica in generale, parliamo di un tipo di riflessione teorico-filosofica avente per oggetto l’arte, il bello e la conoscenza sensibile; questo termine, di origine greca, è stato usato per la prima volta nel 1735 da Baumgarten nel saggio “Meditazioni filosofiche su argomenti concernenti la poesia” e successivamente, nel 1750, viene pubblicato, dallo stesso autore, il volumetto in latino intitolato “Aesthetica”; così, da quel momento, viene chiamato in questo modo un nuovo e autonomo settore della filosofia che si occupa appunto della conoscenza sensibile. Baumgarten intende esaltare la sfera sensoriale fino a riconoscerle un’autonoma capacità conoscitiva, sebbene inferiore, rispetto a quella razionale intellettiva.

La conoscenza superiore, quella dell’intelletto, procede per rappresentazioni razionali e il suo campo è la logica, mentre la conoscenza dell’immaginazione, procede mediante rappresentazioni sensitive, chiare e confuse, e il suo campo disciplinare è quindi l’estetica, e essa è una gnoseologia inferiore: “La scienza della conoscenza e delle rappresentazioni sensibili è l’Estetica, in quanto logica della facoltà inferiore del conoscere, filosofia delle Grazie e delle Muse, gnoseologia inferiore, arte del pensiero bello, arte dell’analogia della ragione”1.

Nel tempo il termine estetica assume particolari variazioni e sfaccettature: Kant lo farà seguire, in una sezione della “Critica della ragion pura”, dall’aggettivo trascendentale, perdendo il riferimento all’arte in quanto tale, ma rifacendosi al significato di facoltà conoscitiva, cercando di legittimare “una antropologia della esperienza estetica e un’analisi trascendentale del giudizio in forza del quale avviene la traduzione di questa esperienza della discorsività”2.

Kant nella “Critica del giudizio” specifica quali siano le facoltà umane e le divide in conoscere, desiderare, provare piacere e dispiacere e si chiede se quest’ultime due abbiano un principio a priori.

Egli individua quattro momenti che si conseguono nel giudizio estetico, ovvero la qualità, cioè il carattere disinteressato e libero; la quantità, cioè il giudizio che deve precedere il sentimento tramite un consenso universale; la relazione, nella quale non vi deve essere finalità nell’oggetto che si giudica (per questo infatti egli ritiene che il bello artistico sia impuro, in quanto in esso vi si cerca un fine) e per ultimo la modalità che risulta essere il gusto puro. Esso risiede a metà tra il carattere privato e soggettivo dell’individuo (immaginazione e sintesi delle varie sensazioni) e le leggi del giudizio dell’intelletto (categorie di spazio e tempo), ma non crea un processo specifico conoscitivo. Per Kant il giudizio estetico è quello che riguarda il bello e il sublime presente in natura che solo il genio riesce a creare in quanto riconcilia l’estetica con l’arte, poiché non fonda le proprie regole artistiche con razionalità ma esse sono istituite dalla natura stessa. Egli crea in modo inconscio producendo opere sublimi, non riconducibili ad una finalità e da esse, in chi ne fruisce, scaturisce un giudizio di gusto puro.

Prima che venga effettivamente teorizzata in maniera precisa nel 1700, la critica del gusto si trova in vari filosofi del milleseicento; Hobbes afferma che il gusto è dato dai poteri soggettivi di sensazione e immaginazione, Cartesio tramite la funzione di sintesi tra mondo esterno e interno della ghiandola pineale trova nella logica delle passioni, saggiamente governate, la volontà di razionalizzare il sensibile, per Leibniz esiste una meditazione analitica anche per ciò che non è chiaro. In quest’ultimo filosofo l’anima pensa sempre, l’intelletto ha un valore formativo e il giudizio ha carattere trascendentale, diversamente da Locke dove essa è una camera oscura che prende tutta la sua conoscenza dall’esperienza, l’intelletto è passivo e diviene attivo tramite l’ingegno.

3.2 Il buon gusto

L’estetica permette di controllare e riuscire a percepire il funzionamento dei sentimenti, messi in moto da tutto ciò che ci circonda, dimostrando che la filosofia non ha per oggetto esclusivamente se stessa; infatti Cartesio sente il bisogno di un controllo razionale di tutto ciò che entra in contatto con noi, nulla più è oscuro e non percepibile.

Burke afferma che il sublime si fonda su un concetto diverso dalla bellezza e l’infinito presente in natura provoca terrore; questa concezione di sublime afferma che l’esteticità non è sempre il riflesso della felicità umana, bellezza e verità non coincidono sempre, a volte la mente non è in grado di agire davanti ad alcuni fenomeni principalmente naturali.

Per Crousaz è il rapporto tra il piacere, che suscita un oggetto, e quest’ultimo che produce l’idea di bellezza similmente all’affermazione di Cartesio che, risolvendo il piacere in chiarezza e introducendo il concetto di buon gusto, fa stimare con il sentimento ciò che la ragione avrebbe scelto, e in questo modo oggettivizza la bellezza.

Addison che, come già indicato nell’introduzione insieme a Gerard apre le strade alla mistica di Blake, distingue i piaceri dati dall’immaginazione, che è la facoltà stessa del bello e del gusto, in quelli primari, diretti dalla natura, e secondari ovvero scaturiti dal ricordo i quali evocano le idee di oggetti, che non abbiamo attualmente davanti agli occhi, ma che vengono ricordati tramite gradevoli combinazioni di cose fittizie, come quadri, descrizioni e tutto ciò che è arte; “esamina la natura e i procedimenti del wit (ingegno) in rapporto al gusto e all’immaginazione”3 e cerca di rendere vivace quest’ultima con la moralità unita all’ingegno.

Come sostiene Anceschi, Addison scrive utilizzando “un suo sentimento di equilibrio, di misura, di saggezza tra puritana e illuminista, con una familiarità di sottili pensieri e sfumature, e capricci calcolati e fantasie misurate (…), per un pubblico di gentiluomini alla cui formazione morale ed estetica contribuisce energicamente”4. Egli crea una vera e propria filosofia e poetica dell’ingegno, distinguendolo da uno vero, che implica una associazione di idee che susciti piacere e sorpresa, e uno falso, che si giova dei giochi di parole, delle somiglianze d’idee.

In Gerard il gusto si perfeziona con l’immaginazione e quest’ultima è una delle principali facoltà del genio, che è l’unico in grado di produrre bellezza. Egli esprime “la volontà di non separare il genio-immaginazione dalla sensibilità e dall’intelletto, genio che può esplicitarsi in una capacità inventiva che appartiene sia all’arte sia al campo scientifico”5.

Sia Addison che Gerard fanno riferimento alla concezione estetica empiristica iniziata da Hobbes e Locke, sebbene con ampie sfumature.

Locke distingue l’ingegno dal giudizio: il primo combina, tramite piacevoli varietà, le idee e vi scopre qualche somiglianza e relazione per farne belle immagini, che divertano e colpiscano l’immaginazione; il secondo cerca le differenze a norma di verità. Secondo Rossi, per il filosofo empirista sia l’argutezza che il giudizio sono caratteristiche innate e contrapposte e egli “distingue tra l’uomo arguto e il ragionatore e (…) quindi la fisionomia dell’artista è opposta a quella del ragionatore”6.

Locke “apre le strade alla grande gnoseologia empiristica e si deve grazie alla sua autorità il consolidarsi e il diffondersi della distinzione tra fantasia e scienza (…) che egli fonda sul motivo dell’associazionismo e sulla teoria della sensibilità”7; egli chiarisce che la fantasia è sintetica, è la capacità di unire, ed è data dalla prontezza e velocità di associazione, mentre l’intelletto è analitico, ordina e distingue tra loro gli oggetti, le idee, le leggi.

L’ingegno, che viene praticamente fuso con il concetto di arte, non ha nulla a che vedere con la verità della ragione. Egli giunge quasi ad una condanna dell’immaginazione che allontana dalla via chiara e fertile dell’intelletto e della scienza, per disperdersi in immagini vaghe. L’unica strada sicura del conoscere è quella della filosofia che, al contrario dell’arte, non allontana dal reale, ma anzi ci permette di verificarlo in modo empirico.

3.3 Blake contro Bacone, Newton e Locke.

Non c’è spazio per una concezione così razionale e meccanicistica dell’universo nella visione del mondo di Blake; per questo motivo la filosofia di Bacone, Newton e Locke è disprezzata, dal nostro poeta, in quanto, per lui, essi sono nemici della vita, volendola ridurre a leggi semplicistiche e non riuscendo a comprendere, invece, che quest’ultima non può essere ridotta a oggetto quantitativo da studiare, poiché l’uomo deve percepire e prendere coscienza, attraverso la sua immaginazione, della immensità dell’universo: “To see a world in a grain of sand/ and a Heaven in a wild flower,/ hold infinity in the palm of your hand/ and eternity in an hour”8. Contro l’universo infinitesimale Newtoniano, tutto calcolabile e conoscibile attraverso il ragionamento, Blake afferma la santità della vita, onnipresente in tutto ciò che esiste e non a caso tutte le sue immagini più caratteristiche come la mosca, il pettirosso, l’usignolo e il timo, fanno riferimento a ciò che solitamente è piccolo e poco importante, ai nostri occhi, in natura. Per Blake, “la vita non è né grande né piccola e la dignità di ogni essere vivente non è relativa ma assoluta”9.

Francesco Bacone, nome con cui nella storia della filosofia italiana è conosciuto Lord di Verulam (Londra 1561-1626), cerca il modo di rendere la scienza attiva e operante al servizio dell’uomo e tale da dare ad esso, tramite la tecnica, il dominio di ogni parte del mondo naturale; questa teoria viene ipotizzata nello scritto rimasto incompiuto della “Nuova Atlantide”, città utopica, paradiso della tecnicità e delle invenzioni, dove gli abitanti cercano di estendere i confini della conoscenza per rendere illimitato il dominio umano sulla terra, il quale necessita di strumenti efficaci per penetrare nella natura, come l’esperimento. Quest’ultimo è la via dell’interpretazione, contrapposta a quella dell’anticipazione che risulta, invece, essere sterile. L’eliminazione delle anticipazioni spoglia la mente umana dai pregiudizi causati principalmente dalla sapienza antica.

Nello scritto “Sulla dignità e sull’accrescimento delle scienze” egli cerca di rinnovare il sapere scientifico ponendone i fondamenti sulla ricerca sperimentale: le scienze si fondano sulla memoria, che ha come oggetto di indagine la storia (naturale, civile, ecclesiastica e letteraria); sulla fantasia, che si occupa della poesia; sulla ragione, che ha come base la filosofia. Bacone, quindi, crede nelle potenzialità di dominio dell’uomo sulla natura e sul reale grazie all’esperimento congiunto, e mai separato, dal ragionamento, rifiutando sia l’empirismo come semplice raccolta di dati, sia l’astratto ragionamento dei razionalisti, e concependo “nella teoria dell’induzione l’arte dell’invenzione, cioè lo strumento capace di scoprire le cause dei fenomeni”, poiché “la causa di un fenomeno deve essere presente quando questo si presenta e deve variare parzialmente quando esso varia”10. La grande importanza, nella storia della filosofia, del contributo di Bacone, non risiede tanto nel suo nuovo metodo di ricerca, ma nell’immenso ruolo che concede, nella vita dell’uomo, alla scienza.

Con Newton la rivoluzione scientifica, iniziata da Copernico e Galileo, giunge al suo compimento, sia sul piano metodico, sia contenutistico. Egli si occupa dapprima di ottica, inventando quel telescopio a riflessione che ancora oggi reca il suo nome e tramite il quale scopre la rifrangibilità dei raggi, che costituiscono la luce bianca. Quindi inizia ad interessarsi dei fenomeni della gravitazione scrivendo uno dei trattati scientifici più importanti della storia: “Philosophiae Naturalis Principia Matematica”.

Egli unisce come aspetti complementari, grazie ad un metodo organico e divenuto canonico, la matematica e la fisica, che astrattamente aveva già formulato Cartesio; rafforza la concezione di una scienza descrittiva dei fatti della natura, rifiutando qualsiasi ipotesi metafisica e non verificabile tramite i fatti stessi; grazie all’unità metodica di matematica e fisica riesce a formulare la legge sulla gravitazione universale.

La scienza moderna è, infatti, una critica radicale della filosofia tradizionale nel senso che opera un cambiamento totale rispetto alla concezione della fisica del passato, e soprattutto di quella Aristotelica, “che all’inizio dell’età moderna si presenta come il culmine della filosofia della natura”11. Sin dall’inizio la filosofia si rivolge al senso unitario del Tutto per contemplarlo, il medesimo che viene ricercato, descritto e disegnato da Blake.

La scienza moderna, invece, cerca le singole parti, isolandole dal contesto in cui si trovano, per dominarle: “Il concetto che la scienza è dominio è ben noto al pensiero greco. Per Platone e Aristotele lo scopo della vita umana è la contemplazione della verità, ma il contemplante, cioè il filosofo, non è comandato e dominato, ma comanda e domina (…) sebbene non trasformi il mondo (e in questo senso non lo domina), poiché affida ai dominanti il compito (…) di provvedere ai bisogni della sua e della propria esistenza”12.

Due sono le correnti che si aprono alla ricerca e alla conoscenza della realtà: il razionalismo e l’empirismo. Il primo considera la realtà governata da un principio intelligibile, accessibile al pensiero tramite l’evidenza razionale, si pensi alla risoluzione del dubbio metodico di Cartesio, tramite l’idea di un Dio buono e non ingannevole, riconoscendo quindi le nostre percezioni sensoriali e sensibili fallibili e non fautrici di certezza; e allora la costruzione dei principi del sapere dovrà basarsi su regole innate o a priori.

L’empirismo vede nell’esperienza la sorgente e la validità di ogni conoscenza e “vede nella sensibilità l’unico reale rapporto, l’unico reale legame tra il mondo delle nostre rappresentazioni e il mondo della realtà in sé stessa: le nostre sensazioni sono l’unico elemento, interrogando il quale possiamo sapere qualcosa intorno alla realtà esterna”13.

Per il filosofo empirista inglese Locke l’interesse per quello che possiamo veramente sapere non si spinge oltre ciò che è collegato alle nostre esigenze pratiche. Per questo motivo egli “nega che la conoscenza della natura sia capace di divenire scienza, cioè epistéme, e afferma che la morale (…) è la scienza propria e l’impegno dell’umanità in generale poiché non siamo stati noi a produrre l’universo; solo Dio conosce la sostanza delle cose da lui create”14; la conoscenza di ciò che ci circonda risulta, quindi, essere soltanto probabile, fondata su una descrizione dei fatti dell’esperienza.

Egli ritiene che la ragione non è unica ed uguale in tutti gli uomini, poiché essi ne partecipano in misura diversa e non è infallibile perché spesso le idee di cui dispongono sono limitate e oscure, essendo sempre tratte dall’esperienza. Ma sebbene limitata e imperfetta, la ragione risulta essere l’unica guida efficace di cui l’uomo dispone e l’oggetto della nostra conoscenza sono le idee: pensare ed avere idee sono la medesima cosa.

Nel “Saggio sull’intelletto umano” Locke fa derivare le idee direttamente dall’esperienza, esse sono cioè il frutto non di una spontaneità creatrice dell’intelletto umano, ma piuttosto della sua passività di fronte alla realtà; quest’ultima è o interna (cioè le idee di riflessione) o esterna (le cose naturali, ovvero idee di sensazione). L’esperienza ci concede solo idee semplici, mentre quelle complesse sono prodotte dallo spirito umano mediante la riunione di quelle semplici: nessun intelletto umano può inventare o creare nuove idee semplici.

Nel ricercare le idee semplici, lo spirito è puramente passivo, mentre nel collegarle fra di loro assume forme attive, dando luogo ad idee complesse o generali.

La fortuna di Locke raggiunge i suoi apici nell’illuminismo, dove viene visto come l’anti-Cartesio per eccellenza ed il continuatore della tradizione sperimentale e scientifica inglese. Egli finisce per essere il custode, tramite il riconoscimento di anatomista della mente umana e teorico dell’anti-innatismo ancorato all’esperienza, di quella ragione sperimentale e antimetafisica di cui l’illuminismo è il portavoce.

Come ricorda giustamente Ferraris Locke “non intraprende però una crociata contro il cartesianesimo; semplicemente ne considera le intime difficoltà nel giustificare i rapporti tra pensiero e estensione”15.

3.4 Blake e l’abisso dei cinque sensi.

Blake quindi contrappone alla filosofia da lui denominata dei cinque sensi, l’immaginazione come carattere produttivo: i cinque sensi sono una limitazione al vero universo, percepibile tramite le esperienze visionarie. Infatti nel “Matrimonio tra il cielo e l’inferno” si legge: “Quando tornai a casa, sull’abisso dei cinque sensi, là dove una scarpata lisca di fianchi con lo sguardo corrucciato incombe sul mondo presente, vidi, avvolto da nubi nere, un Diavolo ai lati volteggiare della roccia e (…) egli scrisse questa frase (…): Non vuoi capire che ogni uccello che fende le vie dell’aria/ è un universo di delizie, chiuso dai tuoi cinque sensi?”16.

Il simbolo maggiormente usato per descrivere lo stato d’errore, in cui sono caduti gli uomini che si trovano in un sonno mortale dello spirito a causa dell’inganno della ragione, è appunto l’Abisso che, oltre a trovarsi nel “Matrimonio tra il cielo e l’inferno”, è presente anche in “I quattro Zoa” dove gli elementi fondamentali della natura umana, caduti appunto nell’Abisso, diventano preda di conoscenza illusoria che svia dalla vocazione profetica che riscatta l’uomo “dalla conoscenza tautologica e lo rende creatore, organo dell’infinito, arca di Dio”17.

In “The song of Los” Blake specifica che la terra è dominata dalla filosofia empirista, affidata a Locke e Newton da Urizen, e non è un caso che il nome di questo creatore e incatenatore, derivi dal greco “orizo” che significa delimitare, circoscrivere: “Thus the terrible race of Los and Enitharmon gave/ Laws and Religions to the sons of Har, binding them more/ And more to Hearth, closing and restreing/ Till a Philosophy of five sense was complete:/ Urizen wept, and gave it into the hands of Newton and Locke”18.

Blake associa Locke a Newton in quanto entrambi distruggono il mondo del “pressappoco”, sostituendo ad esso un universo archimedeo in cui domina la precisione e la misurazione esatta.

Newton, come specifica Sanesi in “Blake e Newton”, è da intendersi come un contrario, non come una figura negativa cioè come uno di quegli Angeli cui sarebbe possibile tramutarsi positivamente in Diavoli.

La prima volta, nei poemi Blakeniani, in cui compare l’associazione tra il nome di Newton e quello di Locke, che poi non verrà più abbandonato, è nel “song” preso da “An Island in the moon” del 1786 in cui, l’autore, rifacendosi ironicamente a Shakespeare scrive: “to be or not to be/ of great capacity,/ like Sir Isaac Newton/ or Locke(…)”19.

Il rapporto ambiguo di Blake verso il personaggio di Newton è rappresentato in “Europe, a Prophecy” (v.v. 4-5), dove lo dipinge come un essere grandioso e eroico assumendo la forma di “Uno spirito possente (…)/il cui nome è Newton” e a questi versi egli affianca anche una incisione: in essa vi si è raffigurato un essere umano, seduto a gambe incrociate, con una mano appoggiata su di un ginocchio, colto nel momento in cui guarda, senza indugi, un altro uomo di spalle che, essendosi riuscito a liberare dalle catene che lo tenevano imprigionato, sale verso una porta, su di una scala. Entrambe le due figure possono rappresentare Newton, e quindi, la prima “può essere letta come un suo doppio, o fantasma, avvalorando di nuovo una visione ambivalente”20.

Blake associa Newton al personaggio sia di Orc simbolo della rivoluzione nel mondo materiale, si ricordi che Newton ha cambiato radicalmente la vecchia concezione dell’universo, sia del suo avversario e contrario Urizen, che rappresenta le convenzioni. La visione doppia scaturisce dal fatto che Blake non riesce a negare totalmente al suo profeta-poeta una funzione ragionante e ordinatrice, sebbene sia in possesso, diversamente dal “sonno di Newton, di una visione multipla e non singola”21.

Il personaggio di Newton, quindi, non viene reputato essere del tutto negativo, ma risulta essere in una sorta di attesa, di un superamento, che solo la profezia può attuare.

In quasi tutti i versi di Blake, il nome di Newton è collegato a immagini di visioni chiare, solari, oggettuali e di misurazione. In “The four Zoas” (“seconda notte”, versi 153-155) scrive: “(…)spread out from the sun/ the vehicles of light they separate the furious particles/ into mild currents as the water mingles with the wine”.

L’antirazionalismo di Blake non lo porta però a sostenere una realtà e un mondo dominato dal caos, in quanto è il poeta, tramite la sua visione, a rendere armonico l’universo grazie all’accuratezza che usa nel trascrivere e registrare le immagini che riceve, riuscendo ad andare oltre, cioè a superare esattamente come enunciato nel “Matrimonio tra il cielo e l’inferno” nella la frase “senza contrari non c’è progresso”22, la Ratio che ci mantiene nel dubbio; quest’ultima, infatti, dandoci risposte rassicuranti, ma non vere, ci offre un universo fittizio.

3.5 L’unione divina tra soggetto ed oggetto.

Per Blake il concetto che la conoscenza derivi unicamente dall’esperienza sensoriale è mistificatorio; egli sostiene infatti che l’atto conoscitivo è sempre e solo di natura mentale, una unione divina tra l’oggetto e il soggetto che percepisce, e solo il secondo può realizzare l’unione tra i due e, per questo, l’opera d’arte assume una valenza creativa in quanto consiste in una produzione di universali.

Blake non può accettare il processo di riflessione di Locke, il quale, distinguendo tra un’attività sensoriale (che percepisce) e una mentale (che seleziona le percezioni e le traduce in concetti astratti), separa totalmente l’unità soggetto-oggetto, e riduce le cose reali ai ricordi, ovvero “gli spettri del simbolismo blakeniano”23.

L’artista vede, intorno a sé, non oggetti di esperienza, “identità materiali conoscibili empiricamente, bensì oggetti di pensiero, entità permanenti e ideali, le cui forme vivono nella sua immaginazione visionaria”,24 e ricerca il mondo veritiero dando forma a quelle immagini eterne che gli si manifestano davanti all’occhio dell’immaginazione.

L’opera d’arte infatti non può essere il prodotto di un progetto definito mediante un ragionamento razionale, ma anzi assume la forma di un processo onirico involontario essendo sempre un dono di Dio innato in chi la produce. In essa le forme del mondo fenomenico sono simboli della realtà eterna, che risiede, fuori del tempo e dello spazio, nell’immaginazione presente in tutti gli uomini, sebbene la maggior parte di essi vivano oscurati dalle nuvole della ragione.

Blake è sempre rimasto estraneo all’epistemologia derivata dalle percezioni dei sensi, alla psicologia meccanicistica e materialistica e ad ogni religione dimostrata e derivata da prove naturali; per il poeta visionario, infatti, se non fosse per il carattere profetico e poetico che riscatta l’uomo dalla caduta nel sonno mortale, e che cerca di giungere alla verità prima, quello filosofico e sperimentale, giungerebbe subito alla Ratio delle cose, senza riuscire ad andare oltre il visibile, soddisfatto delle sue risposte rassicuranti, sebbene false.

In “Gerusalemme” (vv.285-287) Blake sostiene e difende strenuamente l’immaginazione e la presenza di idee innate, che Newton e Locke rinnegavano: “Negano all’uomo una consapevolezza, e la Comunione dei Santi/ e degli Angeli/ Disprezzano la visione e la fruizione Divina, adorando il Deus/ dei Pagani, il Dio di Questo Mondo, e la Dea Natura/ Il Mistero, Babilonia la grande, il Dragone druido, e la nascosta/ Prostituta”.

Un altro punto di distacco tra Blake e Locke risiede proprio nel fatto che il filosofo empirista ricerca l’esistenza di Dio tramite una via dimostrativa: poiché da nulla non può nascere nulla, si deve concludere che se qualcosa c’è, essa deve essere stata prodotta da un essere eterno che ha creato ogni cosa; questa eterna fonte, essendo la fonte di tutti i poteri, sarà onnipotente e avendo creato tutti gli uomini, i quali sono intelligenti, deve essere anch’essa intelligente al massimo grado.

Blake, al contrario, crede che per natura l’uomo sia soltanto soggetto al senso; senza spirito divino o genio poetico nell’umanità, espressi nei sentimenti e nell’intelletto, l’uomo non avrebbe mai potuto trascendere la propria natura materiale in accordo con la tesi dello svedese Swedenborg per cui a partire da una idea materiale è impossibile giungere alla conoscenza del divino in tutti i singoli elementi del creato, ma è necessaria una predisposizione nell’animo alla visione.

3.6 Blake contro la generalizzazione.

L’unità dell’esistenza mentale viene chiamata indifferentemente da Blake forma o immagine; queste esistono esclusivamente nella percezione, diversamente da quanto asserisce Locke, dividendo la sostanza dalla riflessione: la prima riguarda la percezione, la seconda la classificazione delle sensazioni e il loro sviluppo in idee astratte che forniscono principi generalizzati.

Si viene a creare, nel diciottesimo secolo, una vera e propria dottrina della generalizzazione; ciò “appare evidente in Samuel Johnson, intellettuale della seconda metà del settecento, che insiste spesso sulla grandezza della generalità, dicendo che i grandi pensieri sono sempre generali e che nulla può piacere a lungo e a molti, se non le cose puramente di natura generale”25.

Per Blake, invece, è proprio la generalità a creare confusione nella conoscenza e a non fare giungere l’uomo alla verità, tanto da discutere aspramente la teoria sull’arte del pittore londinese Reynolds, poiché riteneva che si basasse su concetti di forma e percezione Lockiane.

Infatti Blake si riferisce sempre alla concezione della riflessione proposta dal filosofo empirista come ad un ricordo, il quale è sempre meno vivo delle percezioni dell’immagine; così è impossibile eseguire un disegno a memoria con altrettanta esattezza come se fosse dal vero, e nello stesso modo “è impossibile che una idea astratta sia qualcosa di più di una idea sottratta, ovvero una vaga e generica persistenza dell’immagine”26.

Se fissiamo un oggetto a lungo tempo, una volta allontanato, riusciamo ad avere un ricordo della sua realtà, ma la sua idea astratta è di gran lunga inferiore all’oggetto reale; quando tentiamo di dare qualità delle cose e tentiamo di dare loro una esistenza indipendente, le assurdità del puro ragionamento diventano veramente ovvie e ci nascondiamo in questo processo per nascondere le deficienze della nostra memoria in quanto è infinitamente superiore la percezione distinta delle cose rispetto al tentativo della memoria di classificarle in principi generali: “La proporzione non ha significato, se non in rapporto diretto con le cose reali che la possiedono (…), le cose sono reali nella misura in cui sono percepite in se stesse in modo chiaro, netto e particolareggiato, distinte le une dalle altre”27.

La riflessione di Locke è intesa ad allontanare il soggetto dall’oggetto, a sostituire le cose reali con ricordi confusi di esse, chiamati nel simbolismo di Blake, spettri ovvero il termine con cui, più frequentemente, Blake condanna l’attività della ragione che rende appunto spettri gli uomini mortali, i quali sono soggiogati dalla morale, dall’egoismo e dalla razionalità..

Per Blake, quindi, il criterio e la norma della realtà è il genio, mentre per Locke è la mediocrità in quanto egli prende come limite della verità l’uomo che ragiona normalmente, eliminando l’idiota, che è al di sotto di tale limite e il visionario, che si innalza al di sopra di esso; rimane una visione comunitaria del reale, in cui le unità individuali sono identiche, e tutti si rassicurano l’un l’altro in quanto percepiscono la medesima cosa, le loro menti sono uniformi e i loro occhi intercambiabili.

Blake “chiama ratio la somma delle esperienze comuni alle menti normali e ogni qualvolta il termine ragione compaia nei suoi scritti, in un contesto negativo, esso ha sempre il significato di raziocinio o riflessione”28, poiché l’individuo, invece, inizia fin dalla nascita a percepire in modo caratteristico e coerente, mettendo in relazione la percezione con il proprio modulo immaginativo.


Conclusione

“Benvenuto, straniero, in questi posti,/ Dove la gioia si posa su ogni ramo/ ed il pallore fugge da ogni viso;/ Ciò che non seminammo non mietemmo.// Come la rosa l’Innocenza sboccia/ in gota ad ogni fanciulla;/ L’Onore sulle loro ciglia trama,/ il gioiello salute/ Adorna il loro collo”1.

I poemi e le immagini di Blake sono tutti simbolici e non metaforici, nessuna comparazione appare in essi, ma il fruitore deve scandagliare, analizzare ogni singolo segno, ogni singola parola e trovarvi il vero significato, il giusto soggetto che Blake ha fisso nella sua mente e che il lettore deve interpretare; nulla ci viene detto e spiegato direttamente dal poeta-profeta.

Non cercherò di delineare quale poetica effettiva avesse seguito Blake nello scrivere poesie, poemi e incidere le sue innumerevoli visioni, poiché “Come parlare di poesia senza tener conto dell’esperienza di coloro che poesia fanno?”2 e in oltre, seguendo Anceschi, “la domanda sembra chiedere una risposta univoca ed unica; le risposte sono molteplici e plurivoche”3. E forse per Blake, più di ogni altro, i confini delle definizioni, divenute dogmatiche nei libri di letteratura, non esistono e non possono esistere. Forse solo l’innocente “che il cuore mantiene caldo”4 o il “folle che persiste nella sua pazzia”5 potrebbero avvicinarsi a toccare il “palazzo della saggezza”6 di cui Blake ha veduto le porte. Egli si è scagliato contro le nuvole della ragione che offuscano la mente degli uomini, ha cercato di raggiungere l’Eden, ovvero quel luogo, quello stato dell’umanità in cui Spazio e Tempo non sono ancora stati generati, che può essere raggiunto solo attraverso la coscienza dell’individuo di una sua identità con la suprema realtà spirituale e partecipa, allora, alla divina unione.

Egli è riuscito a donarci, tramite tutta la sua arte profetica, grazie a una attenta precisione nel descrivere le sue visioni, un assaggio di questa unione dell’eternità.

Ogni momento per lui è infinito, non esiste una reale e univoca concezione di passato e futuro: il vero passato è sempre come appare a noi ora, poiché per Blake, il vero tempo viene dato dall’immaginazione. Così scrive in “Gerusalemme” : “Ciò che è di sopra è di dentro, poiché ogni cosa/ in Eternità è traslucida./ La circonferenza è dentro: Fuori, si forma/ l’Egoista centro./ La circonferenza sempre si espande, avanzando/ verso l’Eternità:/ E il Centro ha Eterni stati: e quegli stati ora noi esploreremo”7.

Le più alte visioni Blakeniane non sono mai descritte naturalisticamente, ma sono sempre associate a concetti astratti, poiché entrare in un mondo remoto e lontano, rispetto a quello con cui di solito si ha a che fare, necessita di essere senza orizzonti visivi e immaginativi, in cui anche lo stesso poeta potrebbe perdersi. Tutti i personaggi Blakeniani non hanno mai singoli nomi, non hanno mai caratteristiche precise, ma sono figure generalizzate “and there is no attempt to give the illusion that they are. We do not take the innocent nurse, for example, to be a particular person that Blake has known or imagined, but recognize her as the representative of a certain state of mind”8. Non ci sono uomini e donne nel mondo Blakeniano, ma solo istinti primari e l’energia dell’immaginazione.

La mitologia sia di personaggi sia di simboli e situazioni che Blake crea, soprattutto negli ultimi libri profetici, è estremamente complessa e difficile da interpretare in quanto ogni singola cosa assume diversi significati, in differenti situazioni e “the poetry of Blake is a poetry of the mind, abstract in substance, concrete in form, his passion is the passion of the immagination, his emotions are the emotions of thought, his beauty is the beauty of idea”9.

Blake ha avuto il coraggio di fissare con gli occhi dell’immaginazione ciò che gli altri esseri umani hanno paura di scorgere e per timore di non avere più risposte confortanti, ma false, non “Rinunziano concordi ad Amore/ non sradicano la vegetazione d’inferno;/e non avverrà che rivedranno/ i mondi di felice Eternità”10.

Mentre l’artista mediocre copia molto di tutto ciò che gli sta intorno, il Grande artista si rifà esclusivamente alle visioni nette e perfette che la propria immaginazione gli fornisce e i suoi simboli vanno ricercati nell’espressione della “fede (…) nel Cristianesimo che è la libertà insieme del corpo e della mente di esercitare le Divine Arti dell’immaginazione, immaginazione che è il mondo reale ed eterno di cui questo universo vegetale non è che una debole ombra (…), ogni cristiano deve impegnarsi apertamente e pubblicamente di fronte al mondo intero in qualche impresa mentale per la costruzione di Gerusalemme”11.

Questa città è l’emanazione di Albione e rappresenta dunque la capacità di visione, non del singolo uomo, ma di tutta l’umanità: quando i poteri visionari sono esercitati, l’intera umanità è unita, mentre nello stato di sonno, nella mortalità, l’uomo è consapevole non della identità spirituale di tutto nel Tempo e nell’eternità, ma delle differenze tra gli esseri e della loro individualità; la visione è quindi sottoposta al riconoscimento della totalità e significa essenzialmente conoscenza immaginativa del reale, la più vera e reale forma di sapere che esista, come “matrimonio apocalittico di tutte le cose in una forma unitaria”12.

Essa non rappresenta alcun canone filosofico già formulato, ma è l’espressione diretta di un momento ispirato che travalica tutti i limiti dell’esperienza grazie ad una interpretazione “degli originali di un mito da parte di un artista in un attimo di ispirazione eccelsa”13; l’artista dotato di fantasia usa la natura come materiale ma ne crea una più alta, che finisce col non avere più nulla in comune con l’originale in quanto non interpreta ciò che gli sta intorno, ma libera il potere della sua mente.

Molto spesso la poesia di Blake viene considerata mistica, temine che il poeta non usa mai; in questo concetto è impossibile riuscire a catalogare le opere Blakeniane, purché non si intenda erroneamente con questo termine tutto ciò che non è accessibile in modo diretto e che sia complicato da comprendere.

Mistico è qualcosa di diretto, di incomunicabile, un legame che non può essere spezzato e totalmente intimo e personale tra l’individuo e il Divino.

Un intero studio di semiotica è dedicato, da Stoichita, proprio al problema di riuscire a rendere pubblico e fruibile a tutti, nell’arte figurativa mistica Spagnola del XVII secolo, qualcosa che di per sé è totalmente privato, poiché “raffigurare pittoricamente una visione significa dare corpo e rendere visibile un fenomeno incerto della vita interiore”,14 in modo che, nel quadro e in virtù di esso, esperienza visionaria e visione diventano dei beni pubblici. La visione mistica non è un’esperienza ottica, bensì il frutto della vista interiore, ma, per essere resa visibile a tutti attraverso le opere pittoriche, deve sottostare alle regole e agli strumenti dell’arte.

Nell’esperienza mistica religiosa, il Divino non comunica realmente, ma immaginariamente, e sarà la rappresentazione di questo atto di unione tra fedele e Dio che ne potrà garantire la comunicabilità. La visione estatica ha luogo quindi dentro l’anima dell’eletto, sebbene vada spazializzata quando viene riprodotta, in modo da rendere ciò che è esoterico essoterico, procedimento, questo, totalmente diverso dal concetto di visione di Blake, dove ciò che si presenta davanti agli occhi dell’immaginazione è qualcosa di assolutamente reale, anzi maggiormente vero della natura.

Per il mistico non è importante quale sia il messaggio o l’oggetto della visione, se ad apparire sia la Madonna, Gesù appena nato o il Cristo risorto, ma è importante la teofania in sé e l’esperienza che se ne ricava, in quanto è quest’ultima che supera i limiti della visione propriamente detta e sollecita gli altri sensi: ciò che veramente rende grande la visione religiosa è l’unione mistica.

L’atto in cui Dio entra in comunicazione con l’eletto non è di certo la cosa principale e finale che interessa a Blake, al quale, invece, ciò che preme risulta essere il produrre la propria poesia. “L’esperienza mistica è per lui materiale poetico, non forma poetica”15. Il mondo spirituale è, comunque, grande fonte di energia e grazie ad essa Blake alimenta la propria ispirazione tanto da essere definito da Northrop Frye “un utilitarista spirituale”16.

Blake morirà la sera della domenica del 12 Agosto 1827 e il solido e mai abbandonato credo nell’autonomia dell’immaginazione del poeta, morirà con lui e “subito l’intero creato sarà consumato e apparirà infinito e sacro”, mentre prima non gli sembrava “che finito e corrotto”17.


“Nobody seems to understand you

As your grasping for that innocence

Sequestered in your mind

Was it guilt or were they blind

All this time”

(Good Riddance, tratto dal brano Trail of the century, in

Symptoms of a Leveling Spirit)




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[4] G.Vico, Autobiografia, Poesie, Scienza Nuova, a cura di Pasquale Scoccio, Garzanti Editore s.p.a, 1983, pag. 482

[5] K. Raine, William Blake, Milano, Gabriele Mazzotta editore, 1981, pag. 141

6 V. Fortunati, saggio in William Blake, mito e linguaggio, a cura di G. Franci, Pordenone, studio tesi, Pag. 33

7 G. Scalia, in William Blake, mito e linguaggio, a cura di G. Franci,Edizione studio tesi, pag. 165

8 William Blake, da Matrimonio tra il cielo e l’inferno, traduzione di Giuseppe Ungaretti in Visioni, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2000, pag 101.

9 K. Raine, William Blake, Milano, Gabriele Mazzotta editore, 1981, pag. 205

10 K. Raine, William Blake, Milano, Gabriele Mazzotta editore, 1981

11 E. Franzini, L’estetica del settecento, Bologna, il Mulino, 1995, pag 113

12 D. Hume, le regole del gusto, Bari, Laterza, 1967, pag. 31

1 William Blake, Matrimonio tra il cielo e l’inferno, traduzione di Giuseppe Ungaretti in Visioni, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2000, pag. 101.

2 William Blake, The marriage of Heaven and Hall, in Visioni, di Giuseppe Ungaretti, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2000, pag. 118.

3 K Raine, William Blake , Milano, Gabriele Mazzotta editore, Milano, 1981, pag. 114

4 William Blake, Europa: una profezia, traduzione di Giuseppe Ungaretti in Visioni, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2000, pag. 181.

5 S. Givone, William Blake arte e religione, Milano, Mursia editrice, 1978, pag. 16

6 E. P. Thompson, Apocalisse e rivoluzione: William Blake e la legge morale, Milano, Cortina editrice, 1996, pag. 208

7 William Blake, Canti dell’Innocenza, traduzione di Giuseppe Ungaretti in Visioni, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2000, pag. 21.

8 J Rousseau, Il contratto sociale, Torino, Enaudi editrice, 1994.

9 J Rousseau, Confessione di fede del Vicario Savoiardo, Genova, Marietti editrice, 1998, pag 73

10 G. Bruno, De la causa, principio et uno presente in Opere italiane di Giordano Bruno, Torino, Unione tipografico-editrice torinese, 2002

11 Cartesio, Principia philosophiae, Roma, Laterza, 1986

12 S. Givone, William Blake, arte e religione, Milano, Mursia editrice, 1978, pag 20

13 William Blake, I quattro Zoa, Notte IV(vv 541-553), traduzione di Giuseppe Ungaretti in Visioni, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2000, pag 197.

14 D. G. Gillham, William Blake, Cambridge, at the University Press, 1973, pag. 17

15 William Blake, I Canti dell’Innocenza ,Il Fiore, traduzione di Giuseppe Ungaretti in Visioni, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2000, pag 21

16 C. Corti, William Blake, mito e linguaggio, Pordenone, Studio tesi, 1983, pag. 151

17 William Blake, Abbozzi poetici, Canto di un vecchio pastore, traduzione di Giuseppe Ungaretti in Visioni, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2000, pag 5

18 Allen e Unwin Ltd, Londra, Critics on Blake, Judith O’Neill editrice, 1981, pag. 14

19 P. Colaicomo e S D’Ottavi, Il mito nella poesia di Blake; Produzione e distruzione, saggio inserito in Mitologia della Ragione, Pordenone, Studio Tesi, 1988, pag. 170

20 K. Raine, William Blake , Milano, Gabriele Mazzotta editore, 1981, pag. 14

21 P. Colaiacomo e S D’Ottavi, Il mito nella poesia di Blake; Produzione e distruzione, saggio inserito in Mitologia della Ragione, Pordenone, Studio Tesi, 1988, pag. 170

22 K. Raine, William Blake , Milano, Gabriele Mazzotta editore, 1981, pag. 180

1 William Blake, da Gerusalemme, traduzione di Giuseppe Ungaretti in Visioni, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2000, pag 123

2 M.H. Abrams, Lo specchi e la lampada, Bologna, il Mulino, 1976, pag. 8

3 Platone, Repubblica, Milano, Oscar Mondadori, 2004, pag. 769

4 Ivi, pag. 763

5 Aristotele, Poetica, Milano, Rizzoli, 2002, pag. 125

6 Ivi, pag. 161

7 H. Bloom, Poetry and repression, Yale, 1971, pag. 12

8 N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, Tea, Milano, Editori associati S.p.A, 2002. Voce: Immaginazione

9 F. Hegel, Estetica, Torino, Einaudi, 1997

10 C. Corti, Il primo Blake, Ravenna, Longo stampa, 1980, pag. 119

11 William Blake, da Matrimonio tra il cielo e l’inferno, traduzione di Giuseppe Ungaretti in Visioni, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2000, pag 117

12 M.H. Abrams, Lo specchio e la lampada, Bologna, il Mulino 1976, pag. 130

13 Ivi, pag. 132

14 H. Bloom, Poetry and repression, Yale, 1971, pag.30

15 H. Bloom, Poetry and repression, Yale, 1971, pag. 34

16 C. Corti, William Blake, mito e linguaggio, Pordenone, Studio tesi, 1983, pag 14

17 C. Corti, Il primo Blake, Ravenna, Longo stampa, 1980, pag. 119

18 Ivi, pag. 128

19 William Blake, da Matrimonio tra il cielo e l’inferno,i traduzione di Giuseppe Ungaretti in Visioni, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2000, pag 101

20 C. Corti, Il primo Blake, Ravenna, Longo stampa, 1980, pag. 153

21 N. Frye, Agghiacciante simmetria, Milano, Longanesi, 1976, pag. 43

22 Ivi, pag. 35

23 C. Corti, Seminario sull’opera di William Blake, Firenze, La Nuova Italia, 1983, pag. 9

24 N. Frye, Agghiacciante simmetria, Milano, Longanesi, 1976, pag. 109

25 C. Corti, Seminario sull’opera di William Blake, Firenze, La Nuova Italia, 1983, pag. 10

1 J. M. Schaeffer, L’arte nell’età moderna, Bologna, il Mulino, 1996, pag. 31.

2 J.M. Schaffer, L’arte nell’età moderna, Bologna, il Mulino,1996, pag. 32.

3 L. Anceschi, Da Bacone a Kant, Bologna, il Mulino, 1987, pag. 130

4 Ivi, pag. 132

5. E. Franzini, L’estetica del settecento, il Mulino, Bologna, 1995, pag. 110

6 M. Rossi, Estetica dell’empirismo inglese, Firenze, Studio tesi, 1944, pag. 169.

7 L. Anceschi, Da Bacone a Kant, Bologna, il Mulino, 1987, pag. 87

8 William Blake, The Poems of Blake, London, Edited by Stevenson, 1971, pag. 585 (dal Pickering manuscript, VIII Auguris of innocent)

9 K. Raine, William Blake , Milano, Gabriele Mazzotta editore, 1981, pag. 56.

10 E. Severino, La filosofia Moderna, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1999, pag. 31

11 Ivi, pag. 32

12 Ivi, pag. 22

13 Ivi, pag. 81

14 Ivi, pag. 123

15 M. Ferraris, L’immaginazione, , Bologna, Il Mulino1990, pag.78

16 William Blake, da Matrimonio tra il cielo e l’inferno,i traduzione di Giuseppe Ungaretti in Visioni, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2000, pag 105

17 S. Givone, William Blake arte e religione, Milano, Mursia editrice, 1978, pag. 68

18 R. Sanesi, Blake e Newton: appunti per una lezione, Castel Maggiore, 1993, pag.14

19 William Blake, The Poems of Blake, London, Edited by Stevenson, 1971, da An island in the moon, pag. 48

20 R. Sanesi, Blake e Newton: appunti per una lezione, Castel Maggiore, 1993, pag.22

21 Ivi, pag.22

22 William Blake, da Matrimonio tra il cielo e l’inferno, traduzione di Giuseppe Ungaretti in Visioni, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2000, pag 101

23 C. Corti, Il primo Blake, Ravenna, Longo stampa, 1980, pag.13

24 Ivi, pag. 16

25 N. Frye, Agghiacciante simmetria, Milano, Longanesi, 1976, pag.31

26Ivi, pag. 32

27 Ivi, pag. 33

28 Ivi, pag.39

1 William Blake, Canto di un vecchio pastore, traduzione di Giuseppe Ungaretti in Visioni, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2000, pag 5

2 L. Anceschi, Che cosa è la poesia?, Bologna, Clueb, 1999, pag. 27.

3 Ivi, pag. 62.

4 William Blake, da Canto di un vecchio pastore, traduzione di Giuseppe Ungaretti in Visioni, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2000, pag 7

5 William Blake, da Matrimonio tra il cielo e l’inferno, traduzione di Giuseppe Ungaretti in Visioni, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2000, pag 109

6 William Blake, da Matrimonio tra il cielo e l’inferno, traduzione di Giuseppe Ungaretti in Visioni, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2000, pag 107.

7 William Blake, da Matrimonio tra il cielo e l’inferno, traduzione di Giuseppe Ungaretti in Visioni, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2000, pag 133

8 D. G. Gillham, William Blake, Cambridge, University Press, 1973, pag. 153.

9 Allen e Unwin Ltd, Critics on Blake, Londra, Judith O’Neill editrice, 1981, pag.27.

10 William Blake, dal Manoscritto Rossetti, traduzione di Giuseppe Ungaretti in Visioni, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2000, pag 69.

11 K. Raine, William Blake, Milano, Mazzotta, 1980, pag.185.

12 C. Corti, Il primo Blake: testo e sistema, Ravenna, Longo Stampa, 1980, pag. 16.

13 Ivi, pag. 117.

14 V. L. Stoichita, Cieli in cornice, Roma, Meltemi, 2002, pag.243.

15 N. Frye, Agghiacciante simmetria, Milano, Longagnesi, 1976, pag. 23.

16 Ivi, pag.24.

17 William Blake, da Matrimonio tra il cielo e l’inferno, traduzione di Giuseppe Ungaretti in Visioni, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2000, pag 119.