mercoledì 26 novembre 2008

la condanna all'arte

Tutto avviene in modo misterioso, l’autore del “Contratto sociale” e della “Nuova Eloisa”, ancora non scritti nel 1750, data importantissima per Jean-Jacques, sta camminando: qualcosa accade nel suo cuore, ha inizio la rottura completa con i philosoph, con gli autori dell’enciclopedia, avviene quello che i critici chiamano l’illuminazione di Vincennes, Jean-Jacques inizia a condannare l’arte, si distacca da Parigi.

Questa conversione prende avvio dalla lettura del bando di concorso dell’Accademia di Digione: “Se il rinascimento delle scienze e delle arti ha contribuito a purificare i costumi”, premio che, paradossalmente il cittadino di Ginevra vince.

Egli inizia a riflettere e capisce di essere fuori dal suo tempo, cosa forse non troppo strana, i suoi attacchi “moralisti” piacciono ai suoi contemporanei e lo portano ad avere un enorme successo che, però, il nostro autore non apprezza fino in fondo.

Presto infatti, nel 1756, arriva alla definitiva chiusura e si ritira in un cottage a Monntmorency, dove avrà un periodo estremamente produttivo: di quegli anni infatti sono i già citati “Contratto sociale”, “Giulia o la nuova Eloisa” e l’”Emilio”.

Bene è ricordarsi, però, che questa condanna è relativa, non ontologica, non assoluta, non è l’arte a corrompere gli uomini, non è l’arte il male, ciò che è sbagliato è il rapporto arte-società.

Rousseau si scaglia contro gli artisti che si svendono e vendono per essere apprezzati ed acclamati, che preferiscono essere applauditi piuttosto che essere virtuosi, ed è proprio in questo, nell’importanza che gioca la virtù, il vero nocciolo della condanna.

Tra la virtù e il genio, senza ombra di dubbio il nostro autore sceglie l’unica “cosa” che realmente ci appartiene, che unicamente è nostra, l’unica che coltiviamo e possiamo accrescere con le nostre forze, ovvero la virtù.

Il genio (o meglio, l’avere genio), essendo qualcosa che già abbiamo, essendo innato, non può realmente migliorarci, possiamo solo, noi, facendone buon uso, unirlo alla virtù, ed essere veri geni (necessario è ricordare che, nella condanna all’arte, c’è uno scarto sostanziale tra l’essere genio, e avere solo genio).

Rousseau condanna chi ha genio ma non ne fa buon uso, chi è interessato solo ad essere conosciuto ed umilia se stesso, chi vuole essere un uomo piacevole e non un uomo retto.

Nel suo “Discorso sulle scienze e sulle arti” (saggio che si può trovare in una magnifica raccolta a cura del professore Ferdinando Bollino “Jean-Jacques Rousseau. Scritti sulle arti” della casa editrice Clueb) si focalizza sul fatto che la nascita delle arti abbia portato l’umanità, una volta semplice, alla corruzione e alla disuguaglianza: ognuno cerca di apparire migliore, ognuno cerca di farsi notare.

Ma come conciliare allora questa sua ferrea critica, alla sua produzione di romanzi e saggi?

Il nostro autore si difende da questa accusa nella prefazione al Narciso, sostenendo che lui scrive non per fama, e se mai fosse dimentico della sua virtù, egli stesso getterebbe nel fuoco tutti i suoi scritti.

E, come scrisse Jean-Jacques, il vero genio non è in vendita, esso è disinteressato.

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