mercoledì 7 gennaio 2009

L'intolleranza di Diana

Quasi iniziatico il corridoio che dal cortile interno del castello di Ferrara si deve percorrere, mentre il moderno, sacro e inavvicinabile “tempio di Diana” ci si svela lentamente davanti agli occhi.
Il materiale con cui è costruito ci assale col suo profumo: sapone di marsiglia.
Si entra, si inizia a camminare e si passa sotto al primo arco che conduce ad un altro tratto di corridoio; di fronte a noi si staglia una struttura di base quadrata alta un metro e ottanta costruita interamente di mattoni di sapone, la visione è quasi onirica, il bianco del materiale ci appare lentamente, illuminato di luce naturale riflette il candore, il fronte del tempio è leggermente in ombra ( il sacro non può essere visto, da occhi profani, interamente illuminato): iniziamo a percepire inconsciamente la purezza che si cela al suo interno.
Continuando a camminare verso il tempio, si inizia a sentire, oltre all’odore di sapone e di pulito che tutto il “sancta sanctorum” emana, l’ ululato della muta dei cani di Atteone all’inseguimento del loro padrone.
Procedendo il latrato dei cani da caccia è sempre più forte e ci accompagna fino al tempio, ci fa sprofondare nella consapevolezza che il Sacro è inafferrabile, che il Sacro deve rimanere invisibile agli occhi umani, pena la metamorfosi, come successe ad Atteone, mito narrato nelle “Metamorfosi” di Ovidio, trasformato in qualcosa che nulla più ha di umano, mutato in una bestia, in un cervo, inseguito e sbranato dai cani che egli stesso possedeva.
Stefano Guerrini ha rivisitato con la sua opera il mito di Diana ed Atteone, ha giocato sull’immagine delle ninfe vergini e della Dea della caccia, il loro bagnarsi nel lago, ha riportato la loro purezza fuori da loro stesse: l’acqua limpida è stata trasfigurata e metaforizzata nell’installazione che le nasconde e le cela in parte al visitatore, costretto a spiarle da un foro aperto nella struttura, ma a distanza.
La struttura è infatti protetta da catene e paletti stradali che ci vietano di andare oltre, che ci ammoniscono a non entrare appieno in contatto con la struttura “sacra” costruita con centinaia di saponette da bucato.
L’odore è forte, all’improvviso ci accorgiamo del buco, curiosiamo all’interno del tempio ed eccole, le ninfe e Diana in una immagine dipinta dal Cavalier d’ Arpino o meglio, si intravedono mentre compiono incuranti le loro abluzioni nelle acque cristalline.
Noi le stiamo spiando come fece Atteone e sappiamo che esse sono pure, lo intuiamo dall’odore.
Guardiamo incuriositi ma non possiamo essere rilassati, c’è qualcosa di terribile che ci aspetta, che ci ha condotto fino a lì, il sacro è inviolabile, i cani ci avevano avvertito, i paletti e le catene che ci separano ci avevano messo in guardia, la tranquillità riaffiora con irruenza odorando, ma la vista e l’udito ci creano una sensazione perturbante; Diana, l’Essere Sacro è pronta a punirci e a nulla varranno le nostre preghiere, a nulla il nostro allontanarci o avvicinarci al tempio.
La purezza stessa che ci viene presentata dall’artista tramite il sapone ma questo è il medesimo mezzo che ci offusca la visione. Solo un piccolo foro ricavato da una saponetta mancante, e nulla più, ci permette di sbirciare le ninfe.
Il Sacro si adira se l’occhio va oltre, quello che è inconcepibile e non visibile deve rimanere tale, pena terribile sarà arrecata a chi cerca invano di conoscere e vedere.
Tanto l’uomo antico dei miti greci che l’uomo moderno sono incapaci di partecipare alla sacralità e “L’intolleranza di Diana” ci ricorda quanto siamo vulnerabili rispetto al divino.
Stefano Guerrini ha rielaborato il mito coinvolgendo tre sensi del fruitore, vista udito e olfatto, forse avremmo voluto anche che il tatto fosse partecipe? Se solo non ci fossero state quelle catene bianche e rosse, avremmo potuto allungare una mano e toccare il tempio ma l’artista sa bene che l’uomo non può osare tanto.
Non dimentichiamo che Adamo ed Eva, per il gusto, ultimo senso, ci hanno fatto scacciare dal paradiso e ci hanno “donato” il peccato originale.

Diderot: il nipote di Rameau e il genio

Diderot, attraverso il suo personaggio Rameau, sembra quasi condannare l’uomo di genio; è vero che chi possiede quella dote emergerà e probabilmente porterà contributi alla società, ma nel futuro.
L’avere genio è dannoso per l’uomo, questa dote allontana l’essere umano dai suoi simili, lo rende disinteressato a tutto, tranne che a se stesso, per questo, seguendo Rameau nipote, molto meglio essere mediocri, piuttosto che spiccare tramite il genio.
Prendendo ad esempio la figura del Rameau zio, infatti, vengono portate alla luce tutte le caratteristiche estremamente negative dell’essere genio: disinteressato a far del bene, unico scopo posseduto al mondo, consiste nel produrre arte.
La condizione isolata del vero genio, morale o immorale che sia costui, è l’unico modo, comunque, per produrre opere che spicchino, nell’immediato, o in un futuro.
Questa posizione critica nei confronti degli uomini che possiedono genio, viene delineata anche negli scritti di Rousseau riguardanti la sua posizione verso l’arte, il quale però, per salvare forse la sua stessa reputazione di scrittore, trova una soluzione adeguata per poter risultare uomo di genio, e possedere anche un profondo altruismo; in lui compare l’idea che per essere un vero genio, questa sua condizione, che lo eleva dai suoi simili, deve legarsi in modo inscindibile alla virtù.
Si scaglia duramente contro coloro che fanno arte senza essere uomini moralmente retti, tanto da condannare il gusto frivolo e gli artisti per avere reso l’umanità peggiore.
Rousseau, quindi, prende di mira gli artisti che si svendono e vendono per essere apprezzati ed acclamati, che preferiscono essere applauditi piuttosto che essere virtuosi, ed è proprio in questo, nell’importanza che gioca la virtù, il vero nocciolo della condanna che è relativa, non ontologica, non assoluta, non è l’arte a corrompere gli uomini, non è l’arte il male, ciò che è sbagliato è il rapporto arte-società.
Nel suo “Discorso sulle scienze e sulle arti”(1750) si focalizza sul fatto che la nascita delle arti abbia portato l’umanità, una volta semplice, alla corruzione e alla disuguaglianza: ognuno cerca di apparire migliore, ognuno cerca di farsi notare.
Tra la virtù e il genio, senza ombra di dubbio Rousseau sceglie l’unica “cosa” che realmente ci appartiene, che unicamente è nostra, l’unica che coltiviamo e possiamo accrescere con le nostre forze, ovvero la virtù.
Il genio (o meglio, l’avere genio), essendo qualcosa che già abbiamo, poichè innato, non può realmente migliorarci, possiamo solo, noi, facendone buon uso, unirlo alla virtù, ed essere veri geni (necessario è ricordare che, nella condanna all’arte, c’è uno scarto sostanziale tra l’essere genio, e avere solo genio)
Voltaire verrà disprezzato da Rousseau, il quale in una lettera indirizzata all’amico di Ginevra Jacob Vernet, esprime tutto il suo disdegno per “quell’uomo di grandi talenti, e così vile per il loro uso”.
Per Rousseau, Voltaire ha commesso un errore impagabile, cercava di vivere con la propria arte, cosa che Rousseau non può accettare, convinto infatti che il genio non sia in vendita.
L’autore del contratto sociale sarebbe rimasto sbigottito nel sentire Rameau nipote affermare che se avesse potuto appropriarsi di una opera dello zio, la avrebbe usata per raggiungere il successo e divenire famoso.
Rousseau infatti rimarrà, per tutta la sua solitaria vita, convinto di ciò che aveva scritto nel “Discorso sulle scienze e sulle arti” che gli uomini amano più l’ apparenza che la virtù. In questo testo, infatti, egli prova a difendere la virtù “davanti agli uomini virtuosi” e afferma che la moralità è più cara “alle persone dabbene che non l’erudizione ai dotti”.
Che tutti vogliano essere applauditi è un concetto che Rousseau riprende spesso e, persino, nella “Prefazione al Narciso” (1753) scrive, “tutti vogliono essere uomini piacevoli, nessuno un uomo retto”.
Il personaggio Rameau non può comprendere il paradosso dell’essere genio, che risiede proprio nel dovere vivere per se stesso, libero dal “potere”, in quanto occorre dedicarsi alla propria arte senza cercare apprezzamenti.
Ma i veri Geni, quelli che ricercano il binomio inscindibile tra genio-virtù, sono rari, e sono gli unici che arrivano alla verità, in quanto non si preoccupano del successo, e non scrivono o producono arte, per piacere agli altri, ma solo per se stessi.
Questi Geni sublimi sono isolati dalla società, ma non per volontà, secondo Rousseau, è la società stessa che, in quanto non li apprezza e capisce, li isola, ammirando invece quegli artisti che producono seguendo il gusto capriccioso della folla.
Il vero genio è l’unico che arriva alla verità in quanto spinto da sentimenti nobili come il giusto e il bene: nella “Lettere a D’ Alembert sugli spettacoli”(scritta nel 1758 per dimostrare quanto potesse essere dannoso un teatro nella cittadina di Ginevra), Rousseau scrive che la giustizia e la verità sono i primi doveri dell’uomo.
Jean-Francois de Saint-Lambert, amante ufficiale di Sophie d’Houdetot, donna amata profondamente da Rousseau, scrive la voce “genio” per l’Encycpoledie focalizzandosi sulla importanza che gioca l’immaginazione e sull’ “animo fervido” che possiede l’artista.
L’uomo che ha questa dote non può ribellarsi alla sua natura, ed è costretto a “sentire” maggiormente, rispetto agli altri uomini.
Egli si impersonifica con ciò che crea e, grazie a questo immedesimarsi. riesce a compiere opere sublimi.
L’uomo di genio si ritrova sommerso dalle idee, difficilmente riesce a seguire delle tranquille riflessioni e questo tomento di immagini lo porta a violare la natura.
Il genio sembra poter cambiare la natura delle cose, non si preoccupa del passato o del presente, ma si proietta sull’avvenire.
Anche Jean-Francois de Saint-Lambert è consapevole del fatto che il genio non viene capito dai suoi contemporanei .
Rousseau alla voce “compositore” del suo “Dizionario di musica” (1768), afferma che il genio è “quella fiamma interiore che pervade e tormenta il compositore suo malgrado” e alla voce “Genio” afferma: “Non cercare, giovane artista, cosa sia il genio. Se ne sei dotato lo avverti in te stesso”. . L’immagine del genio come qualcosa che divampa dentro l’artista, è diversissima rispetto a quella di Du Bos o di Batteaux, dove il genio è una facoltà mitigata dalla ragione, non è nessun trasporto violento poiché questo sarebbe dannoso all’opera.
La razionalità insieme al gusto devono mettere in movimento l’artista, che naturalmente è tale perché possiede quella dote naturale in più che gli altri uomini non posseggono.
Nel 1747 Batteaux scrive “Le belle arti ricondotte ad un unico principio” nel quale sottolinea che le arti sono unite dal principio di imitazione, ma non della realtà qualsiasi, ma della bella natura, che solo il genio può cogliere e riproporre. Non è semplice riproduzione di ciò che l’occhio vede, ma bisogna indagare ciò che è bello, grazie al sostegno-guida del buon gusto.
Il genio quindi, per questi due autori, sopra richiamati, è un dono, un regalo della natura derivante anche da cause fisiche, geografiche, climatiche e storico-sociali, non essendoci ancora spazio in questa visione del genio ottocentesco.